La Scienza Segreta dell'Arte Narrativa
Il nuovo Portale dell’Istituto MetaCultura dedicato allo Studio della Narrazione Artistica in ogni Forma Espressiva. Un Ambiente educativo e formativo rivolto a chiunque, per passione o professione, voglia scoprire e apprendere, insegnare e praticare la lezione metodologica racchiusa nelle opere dei Maestri.
I nostri Servizi e Prodotti
3. Le Mostre Multimediali
Lo spazio espositivo di una Mostra ha costituito per noi, da sempre, un’opportunità imperdibile per sperimentare come costruire, anche e persino con mezzi analogici, un «complesso labirinto cognitivo e narrativo»; ma è sempre stata anche un’occasione per «mostrare con l’esempio» come si possano suggerire «diversi complementari percorsi» all’interno di esso, e da esso verso altri labirinti.
Ogni volta che ci è capitata un’occasione abbiamo sempre raccolto la sfida di esemplificare e spiegare, in forma «narrativa» e al contempo «meta-narrativa», «come si indaga e come si esplora l’opera di un autore», il suo universo narrativo e quello dei suoi maestri e allievi, rappresentando sia la complessità dei suoi «intrecci» sia quella delle sue «soluzioni compositive e narrative».
In questa prospettiva i nostri progetti per mostre multimediali e multiespressive ci hanno consentito di introdurre anche utenti inesperti allo studio dell’arte narrativa.
In ognuna di queste occasioni abbiamo anche cercato di mostrare come, nel costruire l’esposizione, avessimo utilizzato i medesimi meccanismi scientifici padroneggiati dai maestri oggetto delle mostra stessa; quei meccanismi per lo più ignorati tanto dai narratori improvvisati quanto dai visitatori impreparati che preferiscono credere nell’ “estro”, nella “genialità”, nella “magia dell’arte”.
Mostrare e argomentare connessioni non immediatamente percepibili tra oggetti di cui i visitatori potrebbero presumere la conoscenza, elaborare un progetto per esplicitare la rete invisibile che lega tra loro progetti distanti nel tempo, nello spazio e nelle forme espressive, sono operazioni che mettono alla prova anche chi ritenga di essere all’altezza del compito, soprattutto quando si tratta di rappresentare adeguatamente le complesse architetture e le correlazioni interne ed esterne degli oggetti relativi all’ esposizione tenendo conto di spazi molto limitati e di risorse insufficienti. Questo compito può essere considerato uno di quegli «esercizi di stile» che ogni studioso e narratore dovrebbe di tanto in tanto affrontare per scoprire i propri limiti e superarli.
Una condizione preliminare da tenere bene in mente è che i grandi Musei sono spesso essi stessi opere d’arte, che contengono opere d’arte. E una Mostra deve quindi essere intesa come il livello di una «matrioska» collocato tra un contenitore e un contenuto a sua volta contenitore di informazioni.
Da quando ci capitò di progettare la ristrutturazione di un intero museo di scienze biologiche, fino a quando ci siamo assunti l’incarico di onorare e rappresentare, attraverso una mostra modulare e potenzialmente permanente, il grande «Progetto Polienciclopedico» rosselliniano (che consisteva nel raccontare in molteplici forme «i dialoghi impliciti e indiretti tra umanisti del passato e del presente»), non abbiamo perso alcuna occasione per «ripensare la progettazione museale e l’allestimento di spazi predefiniti». Con i nostri progetti abbiamo «rifunzionalizzato» tali spazi allo scopo di creare «labirinti della conoscenza» sia per informare e formare il pubblico, sia per favorire l’avvicinamento di nuovi potenziali fruitori ai «capolavori della nostra tradizione umanistica» e agli «strumenti più adeguati per poterli comprendere e apprezzare».
L’attività espositiva si è necessariamente sviluppata in seno alla nostra attività educativa e formativa come un modo per soddisfare il nostro interesse per la progettazione di soluzioni adeguate (ipertestuali, metanarrative, multimediali) a rappresentare i nostri studi delle correlazioni implicite tra capolavori della narrazione artistica.
Infatti, prima di dedicare tutte le nostre energie alla progettazione e allo sviluppo digitale dei nostri “Sistemi di fruizione e studio reticolare della narrazione artistica”, ci siamo sforzati, per anni, di simulare e di visualizzare «mappe e labirinti cognitivi» anche senza l’ausilio di tecnologie elettroniche, certamente più adatte a supportare le nostre ricerche e la nostra attività educativa e formativa.
L’«organizzazione di spazi architettonici» ci era sembrata sin dagli inizi uno dei modi più esplicativi per rappresentare «fisicamente» quelle «connessioni reticolari implicite» tra le opere dei nostri maestri, anzitutto ripensando la loro sistemazione e disposizione in forma di «biblio-media-teca», sfruttando, come in un famoso quadro di Escher, lo spazio tridimensionale in cui collocarle, e creando materialmente connessioni attraverso sistemi di scale, pavimentazioni trasparenti, pareti semoventi.
Da allora abbiamo dovuto spesso ridimensionare i nostri progetti, nelle attuazioni ma non nei nostri sogni a occhi aperti. I continui stimoli di un altro visionario ignorato ma lungimirante – Theodor Nelson – non hanno mai smesso di ispirarci e di farci riflettere sugli usi possibili degli strumenti digitali «iper-testuali».
La visita allo studio di François Truffaut, poco prima dello smantellamento conseguente alla morte del regista, ci diede ulteriori stimoli a immaginare «come» un «autore-studioso» potesse e dovesse organizzare e riorganizzare le sue risorse d’archivio per trarre nuovi progetti, per collocare ogni nuova informazione tra le altre da lui memorizzate, e per mantenere così sempre vivo nella sua mente il dialogo con e tra i propri maestri, compagni di viaggio, e allievi.
Un saggio come quello di Umberto Eco intorno al “Museo dei Musei”, ma anche gli studi e i progetti di Istituti Culturali che, attraverso le tecnologie digitali, hanno «ricostruito virtualmente e ipoteticamente» le radici storiche e geografiche della nostra Civiltà, ridando vita a ciò che ne resta nei «Siti archeologici», sono stati altrettanti stimoli a indirizzare la nostra ricerca verso ipotesi di «mostre virtuali»; cioè esposizioni che, dalle «mostre fisiche», traessero origine per guidare gli utenti in «ulteriori e più vaste esplorazioni», non contenibili entro lo spazio e il tempo di una sola mostra, per forza di cose limitata dal budget, dall’attenzione dei visitatori, dai beni al momento disponibili per l’esposizione in loco.
Troppo spesso si sono pensate le «Mostre» – così come i «Cataloghi», e i «Musei» stessi – in base alle «Collezioni», raccolte per ragioni raramente scientifiche, ma dovute piuttosto ai «gusti» di un «collezionista» o persino ai «bottini di guerra» e ai «fasti di ambizioni imperialistiche».
È un po’ quello che accade quando un Editore ci chiede che cosa potremmo fare «solo» con il «suo» «eterogeneo» «catalogo», mentre ancora oggi, per poter studiare ed esplorare sistematicamente l’opera di qualunque autore della nostra tradizione umanistica, bisogna spostarsi e districarsi tra pubblicazioni parziali e parzialmente ridondanti, non più edite e inaccessibili, tra musei e collezioni pubbliche e private sparse nel mondo, e con poche e inadeguate bussole per orientarsi.
Ogni volta dobbiamo chiarire che, per rappresentare e spiegare i «labirinti narrativi» creati da un autore, non bastano le «risorse» «irrelate» raccolte, per lo più accidentalmente, da un solo, sia pur benemerito, editore o collezionista o distributore o erede per caso; occorre ricercare e connettere molte più risorse, sparse tra tanti soggetti (anche diversi Editori oltre che diversi Aventi diritto), e fare in modo che ciascuno comprenda la «convenienza» di «sostenere» – anziché di «ostacolare» – il progetto di uno «studio sistematico e reticolare» dell’opera di un autore. Questo necessita, per forza di cose, la disponibilità di ciascun soggetto a «consorziare» le risorse per realizzare un «piano di interesse comune», e la lungimiranza di prevedere il successo dell’impresa proprio grazie al «valore aggiunto delle correlazioni» tra i propri documenti (di valore limitato se considerati da soli) e quelli in possesso di altri.
Fino a poche decine di anni fa l’unica possibilità per creare un’Esposizione che fosse degna di rappresentare l’opera e l’universo narrativo di un autore era quella di organizzare una grande «Retrospettiva», concordando i trasferimenti fisici delle opere grazie ad accordi non sempre facili tra musei e collezionisti di tutto il mondo.
Poi hanno cominciato ad intravedersi i primi pessimi impieghi del digitale, utilizzato per ottenere in modo inadeguato dei «succedanei di mostre», che, con scarse riproduzioni digitali piuttosto che con brutte copie analogiche, cercavano di sopperire ai limiti di miseri o opportunistici progetti espositivi, promettendo al visitatore più ingenuo e impreparato un’esperienza “esaustiva”, “immersiva”. Purtroppo i risultati non erano molto differenti da quelli che offrivano collane di libri divulgativi a dispense o i brutti libri scolastici di “Storia dell’arte” composti con riproduzioni indegne, che ostacolano, piuttosto che favoriscono, lo studio dei capolavori artistici. Non a caso tra i primi cd e dvd prodotti dai primi sedicenti editori della nascente e morente Editoria digitale apparvero proprio mostre virtuali dedicate ad autori e temi della storia dell’arte, visite guidate a grandi musei del mondo che sembravano ricalcare se non riciclare (anche nei miseri apparati critici) le vecchie dispense per facilitare le ricerche scolastiche prefabbricate e per divulgare i soliti luoghi comuni a quel pubblico che vuole sentirsi colto senza sforzi e senza pretese.
Ora, però, grazie all’evoluzione delle tecnologie digitali, si può cominciare seriamente a prendere in considerazione l’ipotesi di una «Mostra Virtuale» che riesca a espandere, qualitativamente e quantitativamente, quello che si può fare, con più fatica e spesso con risultati insoddisfacenti, lavorando in uno spazio fisico delimitato.
Anche l’esperienza di portare nelle sale cinematografiche (o ancor meglio in quelle dotate di tecnologie realmente immersive come l’IMAX) film ad altissima risoluzione che raccontassero le storie e i progetti di grandi artisti, o che documentassero degnamente grandi esposizioni altrimenti destinate a scomparire senza lasciar tracce, ha fornito esempi non trascurabili di come far interagire la visione dal vivo e in presenza con quella rappresentata in forma audiovisiva a distanza di spazio e di tempo.
Si potrebbe dire, anche per le Mostre, quello che vale per il Teatro Musicale e di Prosa, e cioè che la decisione di dare a spettatori di tutto il mondo l’opportunità di assistere a una grande messa in scena che non potrebbero fruire altrimenti, non è solo una scelta democratica o un modo non disdegnabile di recuperare gli investimenti.
Questa soluzione – di trasportare le mostre nel cinema o di creare mostre virtuali attraverso il cinema e la multimedialità – può diventare un modo di rendere maggiormente fruibili esperienze che a volte non possono neppure essere fruite altrettanto bene (se non da pochissimi spettatori) nei luoghi e nei tempi in cui vengono realizzate. Una mostra fruita in fila o accalcati nella folla per poco tempo (alcuni musei oggi fissano persino il tempo di visita), o uno spettacolo fruito in una sala che penalizza l’ascolto e la visione degli spettatori collocati in posti non ideali, non sarebbero meglio distribuiti e fruiti se, a rappresentarli, ci fosse una buona regia audiovisiva, con piani ravvicinati e punti di vista impossibili per lo spettatore in sala, con una registrazione di alta qualità e con la possibilità di disporre di un ambiente predisposto per la visione in alta definizione? Sembrano averlo intuito persino le piattaforme di contenuti “generaliste”, o meglio ancora quelle, più rare ma dedicate, che cominciano a raccogliere o addirittura anche a produrre registrazioni di eventi per offrirli alla visione di utenti interessati a godere di una diretta (o di una registrazione) streaming, proprio come si fa da più tempo con lo sport, per il quale sono stati fatti grandi investimenti proprio per «aumentare» la qualità della visione.
È giunta l’ora di di chiedersi perché mai i grandi Musei non offrano visite interattive online alle proprie collezioni o alle mostre, realizzate o in corso, prevedendo un «allestimento online» e chiedendo di acquistare un biglietto specifico per la «fruizione online» che garantisca loro ulteriori guadagni, e ai fruitori una qualità della visione per godere a distanza di opere che non potrebbero vedere di persona. Occorre domandarsi, senza pregiudizi, come mai la maggioranza dei Teatri di prosa e musicali (al di là delle eccezioni che già esistono) non si si sia dotata di strumenti adatti o non abbia fatto accordi per offrire un servizio di fruizione in streaming a pagamento, con un biglietto necessariamente ridotto rispetto a quello per la fruizione in sala. Questo cambiamento epocale consentirebbe loro di offrire gli spettacoli in cartellone (purché possiedano le qualità necessarie per competere con gli spettacoli di altri teatri che offrano lo stesso servizio) a una platea senza frontiere, e di recuperare gli investimenti per lo spettacolo anche nel tempo, persino dopo aver concluso le repliche. Perché mai ancora – nonostante la tecnologia lo consenta – i concerti, le mostre, gli spettacoli dal vivo non offrono la fruizione in streaming come una delle opzioni di fruizione ad un pubblico più vasto di quello che può godere della fruizione in loco? Per converso, come mai le visite interattive online offerte dalle Istituzioni museali al pubblico della Rete sono concepite solo come lunghi «trailer», «promo» gratuiti per invitare i fruitori a visitare le esposizioni di persona? Perché non è ancora prevista la «fruizione online» come «una tra le diverse opzioni» (che in futuro probabilmente sarà la più scelta), con una sua dignità e qualità, e rivolta almeno a chi non possa venire a vedere di persona l’evento?
Eppure, come si può vedere da alcune pionieristiche offerte audiovisive che cercano di raggiungere lo standard stabilito dalla fruizione musicale, l’«opzione stream», accanto a quella download e a quella cd/dvd/bluray, è sempre più presente, nonché la più appetibile perché a parità di qualità è la più economica, la più facile da ottenere, e di sicuro la più conveniente (proprio come accade sulla piattaforma Youtube, dove si può acquistare «solo» «on demand» un video per la fruizione «temporanea» o «permanente», senza doverlo scaricare e memorizzare su un supporto (opzione download) o senza dover acquistare un supporto deperibile (opzione disco dvd o bluray) per garantire la stessa possibilità di rivederlo – senza un lettore apposito – ogni volta che si voglia su un qualunque dispositivo che offre la più vantaggiosa opzione streaming.
Queste premesse sono indispensabili per comprendere come mai è soprattutto all’interazione tra mostra «offline» e mostra «online», tra mostra «fisica» e mostra «virtuale» che abbiamo rivolto in questi anni tutti i nostri sforzi progettuali, per riuscire a «espandere» al contempo la progettualità narrativa del curatore e l’esperienza conoscitiva del visitatore.
Per anni abbiamo esemplificato come, persino in una mostra fisica, lavorando bene sugli spazi, si possa consentire al visitatore di «ricavare molto dal poco» esposto, e si possa «rappresentare quel poco da una molteplicità di prospettive», ciascuna adeguata a raccontare un aspetto della complessità contenuta, «isomorficamente», anche in un solo capolavoro di un autore. Abbiamo inoltre esemplificato come, al contempo, si possano mostrare le molteplici «correlazioni implicite» tra un capolavoro e altri capolavori dello stesso autore o di altri autori non presenti fisicamente in mostra.
Eppure le mostre che si realizzano di continuo, soprattutto nei circuiti minori, hanno ancora ambizioni ingenuamente e maldestramente totalizzanti; sostituiscono cattive riproduzioni agli originali quando non possono esporli, e offrono un apparato critico divulgativo superficiale, che rafforza, anziché combattere, i luoghi comuni, che non rende giustizia agli autori e che non aiuta il pubblico a cogliere la «complessità» delle opere prese in esame, ma anzi lo illude di poterle comprendere offrendogliene una semplicistica «riduzione».
A confortare le soluzioni espositive da noi sperimentate si aggiungono le ragioni di chi si oppone al trasferimento a scopo espositivo dei soliti famosi ma fragili capolavori tesori dell’umanità, per soddisfare le richieste di un pubblico feticista, alimentate dai mass media.
Per converso gli itinerari del vero «Gran tour» – che non prevedevano solo visite ai Musei più famosi delle grandi Capitali del mondo – sono ormai dimenticati, nonostante ancora, a ricordarceli, siano sopravvissuti gli scritti, le lettere e i quadri dei grandi artisti-studiosi-viaggiatori (in una parola “umanisti”).
Finalmente cominciano ad affacciarsi sulla rete le prime – anche se non sempre degne e adeguate – “visite virtuali” ai grandi musei di tutto il mondo, mentre i luoghi che contengono solo poche opere, per di più ignorate dai libri e dai discorsi dei soliti «mercanti d’arte in costume da studiosi», sono per lo più ignorati, non tutelati e non visitati, senza più personale per custodirli, chiusi se non abbandonati all’incuria e al vandalismo.
Possiamo solo accennare, qui, quello che pensiamo intorno a ciò che potrebbe portare lavoro nel nostro Paese, inteso come il più grande e importante «Museo a cielo aperto» del mondo intero: il nostro patrimonio artistico è ancora considerato come una cosa di cui fregiarsi, ma non da curare, dal momento che non non dà da mangiare a sufficienza … ai voraci opportunisti (gli “economisti della cultura”) sfruttatori di ogni fenomeno culturale per farne un loro successo economico.
«L’arte classica del passato» non fa arricchire chi può controllare assai meglio la proliferazione di quella «pseudoarte» che caratterizza il fenomeno antropologico del «Contemporaneo». Di conseguenza, in un Paese che sembra ormai condannato al peggior degrado culturale di sempre, la miglior opportunità per tornare a crescere è quasi del tutto ignorata, tranne che per lo «sfruttamento turistico», che richiede affascinanti rovine come «sfondi» romantici per vacanze da sogno, per spot commerciali e per imperdibili visite al balcone – finto – di Giulietta e Romeo.
La cosa incredibile è che non occorrerebbero neppure grandi investimenti per rendere il nostro Paese e l’intera vecchia Europa una «rete» di beni culturali correlati tra loro e con tanti altri, meno famosi ma non di meno preziosi, sparsi nel mondo intero.
Non serve spostare e ammucchiare le opere per attrarre i visitatori, spinti dai media all’estenuante ricerca della «quantità», ma senza strumenti per apprezzare la «qualità».
Occorre iniziare a «correlarle» tra loro, facendo di ogni Paese, Città d’arte, Museo, e di ogni articolazione di ogni Opera, un «nodo» di una «rete» che almeno ricostruisca, in forma di «labirinto della conoscenza artistica», gli «itinerari dei gran tour» tracciati dagli artisti stessi in veste di viaggiatori. Da queste premesse si potrebbe continuare poi, più ambiziosamente, con l’esplicitare le «connessioni non immediatamente percepibili» tra quei tesori in gran parte (inutilmente) dissepolti e raccolti per renderli invano disponibili (cioè in gran parte inaccessibili a causa di insufficienti richieste e conseguenti risorse) a chi non sa apprezzarli.
Ma si tratta evidentemente di un gatto che si morde la coda, perché se non si investe nella valorizzazione «iper-informativa» di ciascuna delle nostre risorse artistiche (non stiamo parlando del loro sfruttamento economico), nessuno, che non sia già interessato e preparato, avrà voglia di visitare altro che quelle sole «usate» dai massmedia e dalla pubblicità come “icone del made in Italy”. E inoltre, se non si investe nella preparazione del pubblico, nessuno sarà più in grado di apprezzare neppure quelle più “famose”, al di là di una rapida visita turistica sostituibile, a quel livello superficiale e sbrigativo, con la visione di una cartolina digitale su internet.
A volte abbiamo apprezzato le iniziative di zelanti assessori e curatori che, all’interno della propria città o dei propri Musei, hanno tentato di creare degli itinerari (“barocchi”, ad esempio) o di consorziare le istituzioni culturali per creare “biglietti cumulativi” con cui promuovere itinerari tra le risorse artistiche del territorio e dei monumenti di loro pertinenza; ma questo sforzo andrebbe esteso e portato a livello più alto, tessendo una «rete delle risorse artistiche» di tutto il nostro Paese, «e non di meno degli strumenti» per poterle meglio apprezzare.
Anche in questo caso l’interazione tra il digitale – trasportabile ormai su un dispositivo mobile, ma ancora affidato a risorse inadeguate come quelle di Wikipedia – e i tesori d’arte, visitabili fisicamente o virtualmente, andrebbe potenziata, anziché considerata pregiudizialmente come foriera di una pericolosa ed evitabile «alternativa». L’importanza di tale interazione dovrebbe essere compresa soprattutto da coloro che sopravvivono grazie al «possesso» di «originali» preziosi; molti di loro, infatti, temono che, facendoli conoscere via internet, perderebbero il potere che gli deriva dall’essere i soli a conservare i «supporti» a cui i capolavori artistici sono «analogicamente» legati (e perciò destinati a perdersi con il «deperimento dei supporti» stessi).
Siamo in imbarazzo nel confessarvi quanto la nostra stessa attività sia stata ostacolata, tra gli altri, da ottusi direttori custodi di preziose risorse, i quali neppure si preoccupavano di digitalizzarle a scopo «conservativo» (noi diremmo per «conservare le informazioni», dal momento che i supporti sono inevitabilmente deperibili); anzi, giustificavano la loro ottusità con la “comprensibile paura della perdita dell’esclusiva” in seguito a possibili “appropriazioni indebite rese più facili dal digitale” (citiamo le parole di un direttore di un’Istituzione, senza fare il nome, per farvi capire quanto siano basse le motivazioni e forti i pregiudizi che ostacolano il nostro lavoro sempre in salita).
Sarebbe da approfondire, ma non qui, quanto la paura della «pirateria» freni la crescita del digitale e ostacoli l’«educational», favorendo i fautori della conservazione dell’analogico, baluardo del «protezionismo nazionalista», a scapito della più democratica distribuzione digitale «senza frontiere».
Potremmo raccontarvi di tante Istituzioni museali, universitarie, Bibliotecarie, non solo italiane, che sono riuscite ad accaparrarsi, dai legittimi eredi, preziosi archivi di grandi autori, e a mantenerli in copia unica per attrarre così finanziamenti pubblici (per la conservazione) e per poterli offrire solo alla «visione» del loro pubblico locale di visitatori e iscritti (ovviamente perquisiti per accertare che siano privi di taccuini, registratori, smartphone, o altri dispositivi riproduttivi, eccetto la traditrice memoria psichica, causa di tante false citazioni).
Questi tentativi di conservare «in esclusiva» i rari esemplari e di «mantenere il controllo» della loro fruizione sono andati in fumo quando, ad esempio, alcuni Archivi storici – come lo straordinario “Archivio Storico Ricordi” – hanno deciso di pubblicare online le loro collezioni (tra le quali c’erano alcuni dei preziosi reperti che per anni avevamo chiesto invano ai zelanti Conservatori che le custodivano con l’illusione di poterne rimanere gli unici depositari).
Potremmo raccontarvi delle difficoltà che abbiamo incontrato noi stessi ad essere riconosciuti come un “Istituto depositario di archivi di interesse per l’umanità”, dopo che, per nostra scelta «etica», abbiamo lasciato ai parenti e agli aventi diritto i documenti originali, che pure ci offrivano, e ci siamo limitati a raccogliere e correlare solo le «copie digitali» di quelli, creando – relativamente agli autori di cui ci occupiamo – archivi «unici al mondo per completezza documentale e per la molteplicità di correlazioni interne ed esterne», ma considerati “di poco valore” persino da parte di coloro che si vantano invece di conservare – nei loro scrigni accanto all’arca perduta – un (solo) “pezzo originale”, un raro reperto di un grande autore, destinato, senza alcuna correlazione, a rimanere oscuro al loro pubblico di curiosi e persino a loro stessi.
A questo proposito vogliamo almeno accennarvi la storia esemplare (purtroppo vera) di una delegazione di un importante museo di un Paese vicino al nostro, che venne a chiederci aiuto per allestire una mostra dedicata a Roberto Rossellini proprio nell’anno in cui noi stessi preparavamo le “Celebrazioni per il Centenario della nascita” dell’autore. Inizialmente furono molto soddisfatti nel constatare che noi avevamo raccolto negli anni “documenti” adeguati, per quantità e qualità, a rappresentare ogni aspetto delle molteplici attività e dei progetti umanistici di Rossellini; e già erano giunti al punto di chiederci di collaborare al loro progetto, per far conoscere anche al pubblico del loro Paese ciò che noi stavamo per mettere in mostra a Roma. C’è da aggiungere che i curatori incaricati di allestire della Mostra, che facevano parte della delegazione, fino all’incontro con noi non avevano neppure sospettato che Rossellini avesse ideato un’opera tanto complessa. Perciò ci ringraziarono di aver potuto scoprire ciò che noi stavamo preparando per le Celebrazioni del Centenario. E non ci nascosero che senza la nostra collaborazione non avrebbero mai potuto raccontare ciò che avevano appena iniziato a conoscere grazie a quello che avevamo mostrato loro attraverso una delle nostre postazioni digitali dove stavamo preparando l’allestimento della grande Mostra al Museo in Trastevere di Roma. Ci confessarono con umiltà che non avrebbero saputo come raccontarlo né avrebbero avuto alcunché da mostrare per avvalorare i nuovi discorsi che erano pronti a presentare nella Mostra, parlando di un autore che fino a quel momento loro stessi avevano ritenuto fosse solo un regista di film di impegno civile, una sorta di documentarista anomalo degli esiti del secondo conflitto mondiale. Ma, quando seppero che possedevamo ben pochi “originali” delle innumerevoli lettere, degli scritti autografi, dei taccuini, e delle rubriche dell’autore che avevamo ricercato negli anni e con cui avevamo ricostruito nel modo più esaustivo la ricerca e l’opera dell’autore, rimasero meravigliati, sdegnati per aver fatto perdere loro tempo, e si dissero sorpresi che noi potessimo presentarci come una Fondazione che curava la ricostruzione dell’opera di Rossellini senza possedere gli originali. In conclusione fine preferirono abbandonare l’dea di far conoscere ai visitatori della loro Mostra il grande progetto umanistico rosselliniano, e preferirono rivolgersi a chi poteva offrire loro qualche presunto “pezzo originale” per documentare i soliti stereotipi intorno all’autore “regista improvvisatore”, “ideologicamente impegnato”, e “intenditore di donne e di motori”.
A corollario di questa storia possiamo testimoniare di non essere riusciti a destato alcun interesse nel direttore di una delle Biblioteche più importanti di Europa quando gli proponemmo lo «scambio» (da non crederci, ma quando si parla con i “Conservatori” vale ancora la logica dello scambio di figurine) di nostri “file” relativi a Rossellini con “file” relativi a un autore di cui la sua Biblioteca possedeva l’archivio. Anche in quel caso avevamo presunto ingenuamente che ci potesse essere un interesse nella conoscenza, nella documentazione, e non solo nel feticistico possesso di “originali”. Per argomentare il suo rifiuto ci rispose che la sua Istituzione custodiva solo “originali”; e pur ammettendo di “non possedere quasi nulla” riguardo l’opera di Rossellini studioso, nonché confessando che in fondo loro stessi mettevano a disposizione dei loro utenti solo documenti in versioni digitali attraverso postazioni multimediali, ad ogni modo non era prevista nella loro “Mission” alcuna acquisizione di documenti digitali.
Conclusione morale: in un mondo che ancora fatica a operare quella transizione dall’analogico al digitale che la musica soltanto ha già realizzato, l’«informazione digitale» – perfettamente fruibile su schermi ormai ad altissima risoluzione che consentono di consultare i documenti molto meglio che nelle loro versioni originali – non è ancora considerata neppure equivalente a quella ottenibile (ma con il tempo sempre meno ottenibile) per via «analogica», dai reperti fisici su cui era «memorizzata» prima di iniziare a svanire con il loro deperimento. I «documenti» sono ancora considerati solo i pezzi di carta, le stampe, i reperti – persino se non più leggibili – mentre i ben più leggibili, comprensibili, fruibili documenti digitali (che spesso tornano a nuova vita grazie all’editing digitale) non hanno ancora neppure lo statuto di «documenti», e di conseguenza non vengono presi in considerazione da Istituzioni che dovrebbero occuparsi di conservare e distribuire informazioni oltre che (o prima di) custodire gelosamente reperti archeologici. Questo vuol dire che se un Ente come il nostro è riuscito a raccogliere e correlare, negli anni, documenti digitali che nell’insieme ricostruiscono – come non è mai stato fatto da alcuno – l’opera dei grandi autori di cui si occupa per trasmetterne gli insegnamenti, per le Istituzioni che dovrebbero aiutarci nell’impresa abbiamo meno diritto di essere sostenuti rispetto ad Enti che espongono ogni tanto, come sacre reliquie, oggetti che da soli, senza correlazioni, sono assai poco informativi e poco comprensibili. Siamo ormai giunti al paradosso che, mentre le foto e i video di coloro che hanno investito spesso le proprie risorse per documentare oggetti artistici ormai divenuti quasi illeggibili (per naturale deperimento e cultuale incuria) sono disponibili invano per fruire di quello che non è neppure più percepibile negli originali, la «cultura di massa» e suoi cantori continuano a promuovere la visita al reliquiario e a sostenere che il rapporto mistico con il reperto abbia più importanza della comprensione e della conoscenza dell’opera che quel reperto non può più rappresentare.
D’altro canto raramente chi possiede oggetti di valore artistico, non solo nel nostro Paese, si preoccupa di consentire l’accesso pubblico online a riproduzioni digitali di quelle, mentre conserva nei caveau di una banca o in camere iperbariche i preziosi (in senso economico oltre che mistico) originali. Neppure il compenso per la fruizione delle riproduzioni digitali – quello che richiedono le piattaforme che offrono la fruizione «on demand» – può convincerli a “condividere” (parola che va di moda fin tanto che non si tratta di capolavori) informazioni che sarebbero di grande valore (non economico) per tutti coloro che si occupano di studiare e insegnare ciò che hanno fatto e come lo hanno fatto gli autori di cui gli stessi egoistici collezionisti precludono la visione, o la rendono così difficile da ottenere che di fatto si finisce per farne a meno.
Eppure – se non gravassero pregiudizi ideologici e interessi economici – da un punto di vista tecnologico basterebbe che ognuno di questi soggetti detentori di capolavori creasse una o più pagine web apposite, con «indirizzi assoluti» e con «ancore» per ogni «articolazione» dell’opera pubblicata online. In questo modo, «dall’esterno», si potrebbero facilmente creare «correlazioni» «a partire da» ogni studio o sistema informativo/formativo, realizzato o realizzabile in sedi scientifiche, che consideri quell’opera da una diversa prospettiva e all’interno di un diverso discorso.
Con questa soluzione non solo noi – che ci adoperiamo da oltre quaranta anni per creare veri e propri «manuali reticolari per agevolare l’apprendimento delle straordinarie competenze racchiuse nelle opere» di quegli autori – ma anche studenti, docenti e studiosi, autori di saggi, studi, tesi e lezioni, potrebbero «linkare» anziché «copiare» le immagini, i testi letterari e i video postati da chi ne possiede i diritti.
A tutti coloro che sono più disponibili a condividere il «patrimonio» informativo di cui dispongono, e di conseguenza intendano «esporre» i propri «oggetti», vogliamo dire che oggi, grazie alle tecnologie elettroniche, è possibile veicolare preziose informazioni anche attraverso «rappresentazioni digitali più adeguate» rispetto a quelle che potrebbero ottenere dalla semplice e sola esposizione degli «originali».
Da un po’ di tempo si parla di “realtà aumentata” come se fosse una “nuova tecnologia” per “l’arricchimento della percezione sensoriale umana mediante informazioni, in genere manipolate e convogliate elettronicamente, che non sarebbero percepibili con i cinque sensi” (citazione tratta da Wikipedia), e a tale scopo si offrono, oltre ai «dispositivi» mobili correnti, anche nuove scatole magiche come gli occhiali e i visori speciali per “visualizzare l’invisibile”.
Mentre dunque la realtà aumentata sembra volerci far ri-scoprire la possibilità di correlare ciò che osserviamo a conoscenze ricavate da altri e associate ad esso, altri ci offrono la possibilità di poter finalmente «vedere» sia con i nostri sensi sia con gli «occhi della mente» (se li abbiamo «educati») quello che in un quadro ci sfugge nelle condizioni inadeguate in cui lo osserviamo. È in fondo quello che già da tempo hanno dovuto comprendere e sperimentare i musei che esponevano all’occhio dei visitatori piccoli oggetti preziosi come gioielli e suppellettili. Per consentire una visione adatta alla comprensione sono stati costretti ad associare agli «invisibili» reperti alcuni ingrandimenti e molteplici documentazioni da più prospettive, tramite le odiate e temute “riproduzioni!.
In questa prospettiva metodologica è particolarmente degno di nota quello che il “Rijksmuseum” di Amsterdam si preoccupa di offrire agli studiosi e agli studenti, agli educatori e agli autori.
Il Museo ha recentemente mostrato sul proprio Sito istituzionale cosa può (e intende) fare per esporre online i quadri in suo possesso (l’esempio è un quadro di Rembrandt) in modo da garantire così ai suoi «visitatori online» un’«esperienza conoscitiva straordinaria», fuori dal comune (al momento in cui scriviamo non sono ancora molti gli Enti Museali disposti a fare altrettanto). Grazie ai macchinari utilizzati e alla competenza dei fotografi è riuscito a offrire la visione esemplare di un’opera ad una risoluzione (“ultra alta definizione”) e con una luminosità, una chiarezza e una nitidezza per ogni dettaglio, che non può essere ottenuta esibendo l’originale.
Questo Museo ha dunque deciso di essere tra i pionieri che aprono e mostrano strade per «il futuro della fruizione online». Con questa operazione ha voluto offrire un prezioso «ausilio metodologico» oltre che «tecnologico» (ha voluto ricreare le condizioni preliminari di intelligibilità dell’opera, direbbe uno dei nostri maestri, Alberto Cirese) non solo a chiunque voglia osservare il quadro senza recarsi materialmente presso il museo (a tutti coloro che non potrebbero materialmente raggiungerlo), ma anche e soprattutto a chiunque voglia «indagare, in modo scientifico», la sua «complessa architettura», con il «tempo» e con i «modi» che né la visione presso il museo, né la visione di una riproduzione su un libro, potrebbero consentirgli.
Questo salto tecnologico ci ricorda quello provocato dall’uscita sul mercato dei primi videoregistratori (e poi lettori DVD e Blu-ray), che ci aiutarono a studiare il cinema, il teatro di prosa, e il teatro musicale,
Grazie a iniziative come questa, un fruitore online che sia preparato a indagare le soluzioni narrative e compositive e a confrontarle con quella di altre opere, può finalmente conoscere il quadro meglio che al Museo, e ovviamente meglio che in una riproduzione su carta.
Può apparire incredibile che questa iniziativa nasca dallo stesso Museo che detiene l’opera. Ma quale miglior promozione potrebbe mai ottenere un Museo che decida di agevolare lo studio di un’opera che custodisce? Questa soluzione ovviamente aiuta chi, come noi, può essere interessato a studiare e correlare quel capolavoro all’interno di un «Sistema di Studio Reticolare» senza doverne «caricare» inadeguati succedanei e senza appesantire con file «inclusi» («incollati») nel Sistema (qualora se ne possiedano i diritti d’uso) il Sistema di Studio stesso.
Tra qualche tempo questa novità probabilmente sarà superata da altre (per la tecnologia si può essere ragionevolmente «evoluzionisti»). Tuttavia speriamo che continueranno a crescere anziché diminuire i casi di Musei che vogliano favorire, anche tecnologicamente, l’attività di chi intende studiare le opere da loro conservate, e costruire mostre, pubblicazioni, sistemi di studio che contengano «preview» («embedding») e «link» esterni alle opere prese in esame custodite da quei musei.
Anche e soprattutto nel nuovo mondo digitale in cui la fruizione delle opere (dei «contenuti», come ci dicono le Piattaforme di distribuzione della Rete Internet) avverrà senza il tramite di supporti venduti o affittati o prestati all’utente, in ogni caso chi detiene fisicamente capolavori artistici, chi ne possiede diritti d’uso e distribuzione, e chi dispone di spazi idonei per esporli offline e online, dovrà comunque continuare a porsi interrogativi riguardo a «cosa» e a «come esporre»; ad esempio visualizzando documenti relativi al «progetto», agli «studi autoriali», alla «genesi» del capolavoro, alla sua «realizzazione», e «mostrando le opere in molteplici modi», preclusi al visitatore accalcato in mezzo a tanti altri in una sala affollata, a una distanza obbligata e dietro un vetro protettivo.
Alcune questioni metodologiche non sono certo una novità del mondo digitale: chi possiede uno o più preziosi oggetti artistici di solito non si occupa lui stesso di ricercarne altri e di esporli accanto ai suoi. Neppure è necessario che, oltre alle informazioni «automaticamente» correlabili (quelle che anche un computer dotato di A.I. può ricercare e collegare da solo) debba elaborare quelle che richiedono «studi» approfonditi per cogliere le «connessioni non immediatamente percepibili». Di questi e altri aspetti si occupano normalmente diversi soggetti che collaborano a un «progetto espositivo» in cui «le sole risorse esposte non bastano a fare una mostra».
Tuttavia l’era digitale apre nuove prospettive di collaborazioni indirette tra il mondo artistico e quello scientifico. Ad esempio uno dei vantaggi di esporre online una «collezione museale» è quello di consentire a studiosi come noi di creare, ad esempio, una «mostra virtuale su un tema di interesse scientifico e artistico indipendente dai criteri espositivi del Museo, così come può consentire di realizzare lezioni o manuali online che si riferiscano e si colleghino a le immagini e i video esposti online dal Museo. Inoltre attraverso le nostre «mostre virtuali» possiamo finalmente correlare gli oggetti di una collezione museale non solo tra loro ma anche con altri di altre collezioni, indirettamente, attraverso un labirinto cognitivo creato da noi stessi (nel nostro Sito) così da favorire «diversi viaggi esplorativi, da diverse prospettive, attraverso gli oggetti correlati. Sono i nostri studi metaipertestuali a esplicitare e argomentare i legami tra oggetti appartenenti a diverse collezioni ma imparentanti tra loro per le ragioni che costituiscono l’oggetto della nostra ricerca.
Noi riteniamo che potrebbe essere proprio tra i «compiti istituzionali» di un Museo, di una Biblioteca o di un Teatro favorire la ricerca e la diffusione di quelle informazioni che non possono essere ricavate automaticamente ma che sono ricavabili solo attraverso lo «studio analitico e sistematico delle correlazioni implicite interne ed esterne agli oggetti della propria collezione». Non solo potrebbe far parte dei suoi compiti, ma potrebbe anche qualificarlo come un «laboratorio di studi» e un’«alta scuola di formazione» (anche se l’«educational» è spesso trattato solo come una voce di bilancio con cui coprire i passivi delle istituzioni culturali), come ente polifunzionale attento anche a promuovere e a presentare (magari online e fruibili anche attraverso un dispositivo mobile) gli strumenti più adeguati (come i nostri Sistemi di Fruizione e Studio Reticolare) per «preparare» il pubblico a visitare la propria collezione (e le eventuali esposizioni fisiche e online temporanee), e a valutare con competenza le proprie produzioni.
A questo proposito varrebbe la pena domandarsi quale sia il confine, ovvero la differenza, tra «presentare un archivio online» ben strutturato e ordinabile, e «realizzare una mostra» sempre online con quei materiali.
Molti Enti risolvono il problema affidando al Sito, all’Archivio online, e persino alla Mostra online il solo implicito compito di «promuovere» il Museo o la Mostra offline, evitando così di creare quella «competizione» che potrebbe nascere se il progetto online, con le sue ambizioni e i suoi servizi, diventasse un degno «rivale» delle esposizioni offline, limitate per forza di cose dagli spazi espositivi, dalla loro durata e dalla non implementabilità.
È triste scoprire che ancora molti «Virtual Tour» e «Mostre Interattive Online» «limitano» la definizione delle immagini e le possibilità di linkare le singole pagine, per favorire così la fruizione offline. Questo ci ricorda le scelte di alcune Case Editrici che preferirono realizzare «edizioni digitali ridotte» persino delle loro «enciclopedie», anziché puntare a «edizioni espandibili e aggiornabili», e che addirittura affidarono ad esse il compito di promuovere la vendita delle «complete versioni offline».
In questa lenta e ostacolata transizione verso la «completa fruizione digitale online di tutte le informazioni» potrebbe costituire un passo nella giusta direzione se almeno si consentisse alle grandi esposizioni «dismesse» di continuare a vivere in «grandi esposizioni online», eventualmente anche richiedendo un biglietto di ingresso – come nelle versioni offline – piuttosto che continuare a trattare le esposizioni online come «strumenti gratuiti per promuovere servizi a pagamento offline». Sarebbe auspicabile che dopo la chiusura di una mostra di riconosciuto valore scientifico e artistico rimanesse qualcosa di più che un po’ di copie di un «catalogo cartaceo» (spesso anche riduttivo) destinato a sua volta a scomparire rapidamente dal mercato editoriale e a finire per essere reperibile solo come «rarità» nel mercato dei «remainders» o dell’antiquariato.
In altri termini, non si può evitare, parlando di mostre, di considerare «ciò che resta» di un’«esposizione temporanea» e del relativo «catalogo» quando l’una è «conclusa» e l’altro è «esaurito», a meno che quest’ultimo sia stato distribuito anche in una «inesauribile versione digitale». Noi ci chiediamo perché mai una Mostra e il suo Catalogo, qualora siano pregevoli, non entrino a far parte di una «rete di studi espositivi esemplari» che consenta, anche agli utenti che nasceranno tra dieci anni, di poter viaggiare tra mostre e collezioni non più o non completamente «disponibili fisicamente» intorno a lui.
In fondo, nel mondo digitale che verrà, la «Mostra» e il suo «Catalogo», come il «Corso» e il «Manuale», potranno (o dovranno) non solo interagire ma persino confluire in un Sistema unico integrato di informazione e formazione. I nostri «Sistemi di Studio Reticolare» sono già pensati per trasformare e integrare i nostri Cicli di Lezioni, e per correlarsi come strumenti di studio alle Mostre e agli Spettacoli multimediali, che costituiscono i modi più adeguati per rappresentare e per far fruire gli oggetti di studio dei Sistemi stessi.
Si potrebbe persino arrivare a decidere che i documenti con cui si sono prodotti sia la Mostra che il Catalogo, dopo la realizzazione dell’Esposizione offline, possano costituire – in quanto disponibili anche in versione digitale – il materiale adatto per costruire un Sistema di conoscenza e di narrazione persino più articolato della mostra o del libro stessi. Così il Sistema continuerà a far conoscere tutto quanto – e di più – sia stato elaborato dai curatori rivolgendosi anzitutto agli utenti che non hanno potuto fruire offline la mostra e il libro stampato, e poi agli utenti che vogliano continuare a indagare ed esplorare l’oggetto della mostra, facendone un oggetto di studio.
Noi ci siamo chiesti tante volte cosa fosse rimasto di mostre e di spettacoli di cui abbiamo goduto molti anni addietro, e abbiamo anche ricercato tracce di quegli eventi che hanno contribuito alla nostra crescita anche solo indirettamente, stimolando il nostro interesse scientifico e artistico verso oggetti e temi che in molti casi sono entrati a far parte dei nostri Sistemi. Per lo più ciò che abbiamo trovato è materiale documentario promozionale o critico che non basta di certo a rappresentare adeguatamene qui progetti per chi voglia conoscerli. La stessa preoccupazione che solleviamo per le grandi Esposizioni l’abbiamo sollevata per tanti allestimenti di Spettacoli che riduttivamente vengono considerati di «interesse storico», ma che invece si distinguono dai tanti che rimarranno nella memoria solo come fenomeni rappresentativi di un tempo e di una società, perché essi possiedono un valore artistico universale che può ancora contribuire a formare le nuove generazioni di ogni Paese.
La questione della vita (e della rifunzionalizzazione almeno a scopo formativo) dei grandi allestimenti di grandi spettacoli dopo (ma perché non anche durante?) la loro presentazione nel cartellone di un Teatro dovrebbe essere affrontata non dopo che non sono stati documentati, ma prima di metterli in scena, prevedendone una adeguata documentazione o addirittura una versione audiovisiva autonoma come film (esemplari i film-opera creati da Jean-Pierre Ponnelle).
Come nel caso delle grandi Mostre, il problema da affrontare, che si nasconde dietro improvvisati e dimenticabili allestimenti stagionali, è il valore non effimero di una parte non trascurabile di eventi che potrebbero recuperare gli ingenti investimenti necessari per ottenere la qualità degli allestimenti e dare frutti anche dopo o durante il periodo e la forma dell’allestimento offline. Non dimentichiamo che la differenza tra un allestimento concepito per durare negli anni a venire e per circolare nel mondo intero rispetto ad un allestimento stagionale destinato ad essere rimpiazzato da altri nell’anno successivo sta proprio nella progettazione, nel lavoro che un bravo drammaturgo (lo stesso dicasi per il curatore della Mostra) impiega non per realizzare ulteriori allestimenti nello stesso anno ma per curare quel progetto per tutto il tempo necessario per portarlo a perfezione.
Torniamo a domandarci perché mai dovrebbero essere in opposizione tra loro la messa in scena di uno spettacolo per pochi paganti in teatro con la messa in onda in streaming dello Spettacolo per tanti disposti a pagare un biglietto più conveniente per una fruizione on demand. Perché mai non si potrebbe fare la stessa cosa con le grandi Mostre? E perché mai i Siti online dovrebbero continuare ad essere solo vetrine per promuovere la visita nei tempi e nei luoghi fisici delle esposizioni?
Resta a ricordarci il problema della «vita di uno spettacolo» (o di una Mostra), oltre la sua uscita e il suo smantellamento, l’operazione compiuta da Louis Malle quando mise a disposizione le sue notevoli competenze cinematografiche per trasformare in film il meraviglioso allestimento di Zio Vania di Cechov realizzato dal regista teatrale Andre Gregory, che lo stesso Malle, dopo aver visto e apprezzato in veste di spettatore, ritenne che «non dovesse andare perso», forse pensando, come noi, che avrebbe potuto insegnare a una generazione di attori e registi come ci crea un simile spettacolo.
Quante volte siamo rimasti attoniti e rattristati perché certi allestimenti di Mostre, certi complessi e faticosi lavori di studiosi e curatori sono finiti dispersi e cancellati dopo che l’esposizione era stata smontata. Noi stessi abbiamo tentato invano di rendere permanente e implementabile la Mostra che curammo – allora con pochissime risorse economiche, ma con tanta passione – concernente i rapporti tra Roberto Rossellini e i suoi maestri umanisti. Noi stessi pensavamo allora che un Comune come quello di Roma, anche solo per ragioni biografiche (Rossellini era nato a Roma), avrebbe accolto il nostro progetto come risorsa permanente della Capitale. Purtroppo, non siamo riusciti neppure a mantenere le scenografie e le riproduzioni a causa di una ovviabile mancanza di una sede fisica e dei pochi fondi necessari per il recupero, la rifunzionalizzazione e l’implementazione del progetto a partire dai materiali usati per l’allestimento.
È lo stesso problema che riguarda gli allestimenti scenici dei grandi spettacoli prodotti dai Teatri di prosa e musicali, che vengono dismessi per far posto a nuove e spesso più inadeguate messe in scena, tanto vergognose e destinate all’oblio quanto necessarie per dare aiuti economici a pseudoartisti protetti dei potenti, che non meriterebbero di accostare il loro nome a quello degli autori che mettono in scena. È a dir poco indicativo che, ad esempio, un grande regista come Piero Faggioni mantenga a sue spese quel che resta del grande allestimento scenico da lui ideato per il Don Chisciotte di Massenet, mentre i Teatri e i loro direttori dalla memoria corta semplicemente lo ignorano e non ripropongono la sua esemplare messa in scena.
A frenare il nostro lavoro, con cui tentiamo di far conoscere le opere dei grandi autori insieme ai progetti scenici dei registi che hanno saputo meglio rappresentarle, è ancora quella stupida tendenza, ammantata di idee decadenti, che la fine di un allestimento di una mostra o di uno spettacolo sia anche la fine dello spettacolo stesso – perché considerato per sua natura necessariamente “effimero”. A causa di questa politica distruttiva rimangano solo le memorie di qualche visitatore/spettatore, magari armato di videocamera abusiva, che alimentano l’attività benemerita di tanti collezionisti feticisti in cerca di sacre reliquie.
Questa tendenza culturale suicida è superabile anche «tecnicamente», sfruttando le ormai innumerevoli possibilità di documentare l’allestimento scenico in modo adeguato. Un tempo la registrazione di uno spettacolo si realizzava solo in qualità bassa e a camera fissa in funzione delle eventuali «riprese» dello spettacolo stesso, cioè per facilitare il lavoro degli scenografi, coreografi, e registi, quando lo avrebbero riallestito a distanza di spazio/tempo. Ora si può anche far rivivere lo spettacolo in una nuova forma digitale multimediale, almeno per chi voglia (e debba, per la propria formazione professionale) comprendere, studiare e apprezzare il progetto dell’autore e dei suoi migliori interpreti, anche in mancanza di un riallestimento in altro tempo e in altro luogo da parte di politici della cultura avveduti, che non pensino cioè alle Mostre e agli Spettacoli solo come occasioni per far lavorare i loro immeritevoli protetti.
Perché non si rimette in scena uno spettacolo curato da Giorgio Strehler o da Jean-Pierre Ponnelle o da Luchino Visconti, anziché mettere in scena solo spettacoli che «dissacrano» i capolavori drammaturgici «classici» invece di «onorarli» con degne messe in scena? Anzitutto – osiamo dire – per ragioni nepotistiche, poi per ragioni economiche, ideologiche, e oggi persino per ragioni moralistiche (le ragioni «iconoclaste» della “cancel culture” e del “politicamente corretto”).
Non occorre un grande sforzo intellettivo per capire che non si riportano sulla scena quei maestri perché i loro allestimenti non farebbero guadagnare i nuovi metteur en scene e i loro mecenati. Ma ci sono anche delle ragioni tecniche. Per comprenderle basta domandarsi come mai si può ancora rimettere in scena l’Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni nell’ interpretazione originale e al contempo rispettosa di Giorgio Strehler, ma non Vita di Galileo, da Brecht, dello stesso Strehler. La risposta è semplice: del primo esiste un video, e del secondo no.
Perché mai si può rimettere in scena La Cenerentola (da Rossini) con la meravigliosa regia di Jean-Pierre Ponnelle e non la Tetralogia Wagneriana diretta dallo stesso Ponnelle? Perché Ponnelle, cosciente del lavoro incedibile da lui compiuto, del suo lungo e approfondito studio preparatorio e del progetto eccezionale da lui elaborato si era preoccupato lui stesso (come Eduardo De Filippo e pochi altri) di lasciarci una rappresentazione adeguata di alcuni suoi spettacoli (quelli per cui qualcuno era disposto a finanziare una versione di «film-opera»), con una regia audiovisiva, curata da lui stesso, che consentisse tra l’altro di facilitare il lavoro di chi volesse riportarli sulla scena del proprio Teatro, non solo per rendere omaggio a Ponnelle ma anche e soprattutto per far apprezzare al pubblico i capolavori operistici degli autori da lui messi in scena (Rossini, Mozart, Puccini, …); capolavori messi in scena come difficilmente oggi ci capita di vedere e apprezzare, a causa di troppe pessime, sbrigative, e dimenticabili «nuove messe in scena».
Ci dispiace dover ricordare che la RAI, oltre a lasciare deteriorare parte delle registrazioni video delle regie di Eduardo prima di farne nuove edizioni video, abbia cancellato – secondo Andrea Camilleri – alcune delle sue preziosissime rappresentazioni audiovisive (che noi stessi vedemmo una prima volta e poi anche in replica); la qual cosa, immaginiamo, deve aver invogliato alcuni registi a cimentarsi proprio in una di quelle messe in scena di cui non c’è più traccia (Sabato, domenica e lunedì), evitando l’imbarazzante confronto con la messa in scena del maestro stesso.
“Dal debutto in televisione del teatro di Eduardo De Filippo non vi sono piu’ tracce. I nastri c’erano, ma sono stati cancellati. E’ sicuro lo scrittore Andrera Camilleri che, al tempo della registrazioni, era uno dei delegati alla produzione della Rai. Tre delle otto commedie di Eduardo, realizzate nel 1962, sembrano essere sparite dagli archivi. La tv di stato ha smentito la notizia dicendo che le commedie erano in diretta e non furono registrate e quindi non sono mai entrate in archivio. Ma stiamo scherzando? – commenta Camilleri -. Fu un evento che ebbe una risonanza mostruosa. Le prime otto commedie vennero prodotte per il secondo canale. Eduardo era dell’arie di sinistra ed era il primo intellettuale che collaborava con una tv alla quale gli intellettuali, e soprattutto quelli di sinistra, erano ostili. Quindi era una carta importante per la televisione. Ma poi furono registrate le commedie? Fanno Eduardo in tv e non lo registrano? Impossibile. Tant’e’ vero che le replicarono un anno dopo sulla prima rete. Quanto ai nastri, Camilleri sostiene che furono cancellati subito dopo. Queste prime otto commedie prodotte, fra le quali c’erano anche le tre cancellate, vennero replicate da li’ ad un anno sulla rete nazionale. Allora le presentai sul “Radiocorriere”. Ho trovato gli articoli, ma erano solo 5, dalle repliche vennero escluse proprio le tre che mancano ora. Ma come e’ potuto accadere? Io credo una cosa molto semplice: quando noi registravamo queste cose su Ampex, la taglierina non era stata inventata. Quindi dovevamo registrare un atto tutto di fila. Se si sbagliava, si ricominciava da capo. Capito’ proprio con “Sabato, domenica e lunedi”, dove negli ultimi secondi un attore pensando di non essere inquadrato, usci’ a quattro zampe. Eravamo obbligati a fare il conto dei “neri”, a dire dove sarebbe avvenuto un taglio e cercare di ridurli in modo da riutilizzare il nastro. Fra le cose andate perse, ricorda Camilleri, i “siparietti” che precedevano “Sik Sik”. C’erano il “Cravattaro”, l’esilarante “L’avvocata ha fretta” fatta con Pietro Carloni. Era tutto molto divertente. Tutto perso per distrazione. Non c’entra la malafede, e’ solo un problema di stupidita’. Eduardo mi diceva: a me, me fa paura solo u’ fesso.”
Corriere della Sera, 25 maggio 2000
Tornando ai problemi metodologici di cui occorre tener conto quando si studia l’allestimento fisico di una mostra o di uno Spettacolo, affinché possa continuare a vivere adattandosi alla fruizione online e integrandosi in un Sistema di Studio dell’opera rappresentata e delle sue stesse soluzioni sceniche, appare chiaro che qualunque allestimento, per quanto ben fatto, non potrà mai sostituire la conoscenza lunga e approfondita dell’opera di un autore e dei suoi correlati. Per quello occorre studio e più tempo. Per questa ragione abbiamo creato i nostri Sistemi di Studio. Ma una Mostra o un Allestimento scenico possono costituire anche indipendente da quello un accesso, un filo da cogliere per favorire l’ingresso di un potenziale utente nella complessa opera di grande maestro, per fargli venire la voglia di faticare per esplorarla, e soprattutto per prepararsi ad esplorarla con uno strumento adatto come il Sistema di Studio Reticolare.
Per concludere questa esposizione di problemi e di possibili soluzioni ci domandiamo perché mai non ci sia un «Museo Virtuale degli allestimenti scenici dei più grandi interpreti», che consenta da un lato di poter studiare meglio, attraverso di essi, le opere da loro messe in scena, ma anche di poter studiare, a confronto, le soluzioni interpretative dei grandi «metteur en scene» nell’affrontare lo stesso progetto autoriale e portarlo sulla scena.
Non era poi così inverosimile l’idea provocatoria, lanciata da Umberto Eco, di creare allestimenti e musei con «un solo pezzo» ma con un «apparato critico immenso e inesauribile».
Forse, in un tempo non troppo lontano, potremo finalmente sfruttare l’opportunità di far interagire online i nostri Sistemi con intere collezioni museali accessibili attraverso indirizzi assoluti; e forse, nel frattempo, potremo finalmente aver raggiunto quella condizione di «sufficienza» e di «adeguatezza» di documenti di archivio online (oggi ancora sostituiti da loro inadeguate «preview» che sfruttano la rete come vetrina pubblicitaria), indispensabile per poter avviare un lavoro «sistematico» di studio «interdisciplinare», «poliprospettico», «multiplanare», cioè «reticolare», riguardo a tutte le opere dei grandi artisti di cui da anni continuiamo faticosamente a raccogliere risorse nei nostri archivi digitali. Potremo finalmente occuparci non più soltanto di quelle opere su cui ci siamo concentrati in questi anni grazie alla quantità di risorse ad esse relative che abbiamo avuto la «fortuna» di avere a disposizione, godendo della fiducia di qualche avente diritto o meritandoci l’investimento di tempo e di denaro da parte dei nostri sostenitori e collaboratori.
Operazioni già compiute in forma analogica, creando «cataloghi ragionati dell’opera di un autore», censendola e producendo buone riproduzioni insieme ad un apparato filologico frutto di ricerche approfondite, dovrebbero essere valorizzate anzitutto realizzando e distribuendo nuove versioni digitali. Queste edizioni sarebbero materiale prezioso per chiunque voglia studiare l’opera completa di un autore senza dover ricorrere alle poche costosissime copie analogiche ancora reperibili nel mercato dell’antiquariato. La Case Editrice Taschen, ad esempio, non ristampa i suoi stupendi grandi volumi – di difficile consultazione analogica ma fondamentali per chi voglia studiare le opere complete di grandi artisti – mentre sulla Rete ancora nessuno investe in un’operazione analoga di censimento delle opere e di riproduzioni di qualità.
L’Editoria analogica ha creato il paradosso dell’ «edizione d’arte», a tiratura limitata, che offre riproduzioni in alta qualità di opere di autori. Queste preziose copie numerate, una volta esaurite, diventano quasi degli equivalenti, a minor costo, (come le litografie) delle opere in possesso dei legittimi proprietari.
Per autori come Saul Steinberg, ad esempio, a parte alcune preview in dimensioni francobollo, non esistono online mostre permanenti o cataloghi ragionati della sua opera per chi voglia studiarla. Inoltre gran parte della sua opera è ormai accessibile solo in sedi museali o archivistiche o presso antiquari e galleristi a prezzi da collezionismo. Alcuni libri prodotti da Steinberg (come le immagini per iPad prodotte da Hockney) da un lato hanno sollevato il problema del valore di un’opera nata come «riproduzione», come oggetto per la vendita nelle normali librerie accanto ad altri oggetti di consumo, da un altro, una volta esauriti e diventati introvabili, ci inducono a chiederci perché mai non si realizzino copie digitali equivalenti, che continuino a diffondere la sua opera presso nuove generazioni che altrimenti avranno poche occasioni (forse qualche retrospettiva)per scoprire chi sia Steinberg.
Oggi i risultati dei nostri studi «esterni ma correlabili a» gli oggetti di studio posseduti da un Ente Culturale come un Museo (i Sistemi di Studio Reticolari che noi elaboriamo in rapporto a capolavori dell’arte narrativa di ogni tempo e luogo sparsi nel mondo intero) possono finalmente essere fruiti non solo offline, «accanto a» gli «archivi delle opere degli autori prese in esame» (come facevamo noi stessi, tempo addietro, installando i nostri Sistemi in «postazioni» collocate nelle sedi degli Enti interessati a valorizzare il loro patrimonio artistico e a formare il loro pubblico), ma anche online, dai dispositivi con cui gli stessi utenti possono ora godere pienamente dell’interazione tra il nostro lavoro e quello degli Enti preposti a conservare e tutelare gli oggetti di studio.
Chi utilizza i nostri Sistemi o visita le nostre Mostre virtuali può esplorare online le correlazioni tra i nostri «studi reticolari» e gli oggetti «da cui sono ricavati e a cui sono correlati» proprio per valorizzarli e per dare al pubblico un’«esperienza cognitiva di studio analitico» (anche fuori dello spazio espositivo) oltre che di «fruizione» più estesa, per soddisfare le «domande» che ogni esposizione di capolavori artistici dovrebbe porre più esplicitamente al suo fruitore, per indurlo a cercare – anche altrove – le molteplici risposte.
Spesso chi possiede opere d’arte non sente la responsabilità di trattarle come «patrimonio dell’umanità»; piuttosto le considera come attrazioni da luna park, utili per far soldi sfruttando la curiosità e il fascino che il pubblico prova per le cose che valgono molto, che sono uniche e difficilmente accessibili.
Questo lascia aperto il problema di soddisfare – possibilmente senza lucrare – il diritto alla conoscenza, allo studio, all’informazione, all’educazione, e di agevolare chi, come noi, si adopera – senza profitto – per formare il pubblico e i nuovi autori e studiosi.
Chi svolge un lavoro come il nostro – finalizzato a creare gli strumenti per la formazione umanistica e per la crescita degli individui – ha bisogno di avere accesso non una tantum al «caveau» dove sono riposte le preziose risorse o alla sala espositiva in cui sono temporaneamente esibite, ma a una serie di «indirizzi online, assoluti e non temporanei», per poter puntare a quelle opere ogni volta che, dall’interno dei Sistemi di Studio che elabora, viene presa in esame, da una nuova prospettiva, una parte o un aspetto di quelle opere.
Da oltre venti anni combattiamo la politica culturale di coloro che ancora oggi insistono a creare pseudo-sussidi informativi e formativi che contengono riassunti e succedanei di opere d’arte, con cui continuano a rivendere il «pacco multimediale» costituito dalle (riproduzioni inadeguate delle) opere d’arte insieme a ridicoli apparati critici fatti di luoghi comuni e notizie ottenibili ovunque.
I nostri Sistemi si avvalgono della possibilità, offerta dalla tecnologia digitale già dati remoti tempi del digitale offline su disco – di correlare dall’esterno i nostri studi agli oggetti presi in esame, di cui non possediamo e non vogliamo acquisire i diritti.
Ad ognuno il suo: i nostri Sistemi non «contengono» riproduzioni degli oggetti di studio, ma gli «indirizzi» degli oggetti insieme ai «criteri di correlazione» e alle «argomentazioni scientifiche» che li correlano in base a tali criteri.
I nostri Sistemi presuppongono un censimento di «dati-indirizzi» sparsi ovunque nel mondo per dare a noi e ai nostri utenti la possibilità di «viaggiare virtualmente» tra le collezioni museali e le esposizioni, fisse e permanenti, di tutto il mondo, anche senza viaggiare fisicamente dall’una all’altra.
Per interessare gli utenti al nostro lavoro noi non abbiamo bisogno di «possedere» ciò di cui ci occupiamo. Noi vogliamo poter semplicemente e indirettamente mostrare gli oggetti di cui parliamo, farli vedere, leggere, ascoltare presso coloro che ne detengono i relativi diritti e possono esibirli nelle migliori condizioni. A noi interessa che ci sia consentito l’accesso parziale alle loro risorse dall’interno dei nostri Sistemi, mentre noi ne favoriamo la fruizione completa al di fuori dei nostri Sistemi. In questo senso il nostro lavoro è da intendere come un «complemento» di quello svolto dai grandi artisti per realizzare i loro capolavori, e di quello svolto dalle nobili Istituzioni che si preoccupano di tutelare quelle opere e di renderle fruibili per il mondo intero, anche sfruttando oggi le possibilità tecnologiche della distribuzione online.
Noi elaboriamo e forniamo gli strumenti più adeguati per apprezzare le opere degli artisti e per imparare da esse come crearne di nuove, perché noi non ci sostituiamo agli autori, come invece fanno certi critici (autori incapaci e per questo frustrati) che costruiscono «intorno all’opera» – senza riuscire a entrarci dentro – un apparato «sovra-interpretativo», dietrologico, che secondo loro spiegherebbe cose che neppure l’autore sapeva di star facendo.
Noi invece consentiamo ai nostri utenti di andare virtualmente «a bottega» da coloro che hanno creato quelle opere, per imparare a ragionare come quegli autori, per comprendere dall’interno il senso di ogni loro operazione, di ogni soluzione da loro elaborata in base a «principi universali di composizione e narrazione» condivisi con altri autori, maestri, allievi, e interlocutori a distanza.
Ma non dobbiamo dimenticare che per accedere alle risorse relative ai capolavori artistici, per poter fare con esse mostre, lezioni, manuali, ma anche spettacoli e pubblicazioni online – pur sempre a scopo «educational Non Profit» – occorre risolvere a livello istituzionale e politico le complicazioni sempre incombenti relative ai loro «diritti d’uso».
Vi è per così dire una disattenzione assai diffusa per i «diritti d’uso relativi ad attività educational non profit», quei diritti allo studio, alla conoscenza, all’educazione e alla formazione, che, pur presenti nelle leggi di quasi ogni Paese, vengono sistematicamente ignorati e calpestati.
Così, chiunque intenda parlare di «tesori» che dovrebbero essere trattati come «patrimonio dell’intera Umanità» e «risorsa primaria per la formazione umanistica», viene comunque considerato un «cliente» da spennare. Così gli studiosi e gli educatori sono considerati allo stesso rango dei «pirati» che, fregandosene delle leggi e invocando loro stessi paradossalmente una presunta libertà di informazione, riempiono canali come YouTube di copie pirata che appaiono senza pudore accanto a titoli regolarmente in commercio o fuori dai diritti.
Quei «diritti inalienabili all’informazione e alla formazione» ci dovrebbero permettere di realizzare un Ciclo di Lezioni, un Sistema di Studio Reticolare, una Mostra o uno Spettacolo multimediale relativi all’opera di un grande autore senza dover acquisire i ben diversi «diritti per distribuzione commerciale» di ogni immagine o sequenza che noi prendiamo in esame per spiegare i meccanismi di funzionamento di un’opera ai nostri utenti.
Questo dovrebbe apparire ancor più paradossale se pensate che, con un’attività educativa e formativa come la nostra, non solo noi non guadagniamo nulla, ma addirittura contribuiamo a far guadagnare gli aventi diritto, promuovendo, dall’interno dei nostri progetti, la conoscenza delle opere di cui loro detengono i diritti di distribuzione commerciale, e addirittura formando i loro potenziali utenti affinché possano apprezzarle.
Ma è difficile occuparsi di opere d’arte senza essere scambiati per speculatori o pirati che vogliono sfruttare indebitamente risorse non proprie ad uso commerciale.
È diventato inevitabile, parlando di Mostre e Spettacoli, dover affrontare il problema più ampio dei diritti per uso educational, che riguarda ogni presentazione, esposizione, proiezione delle opere d’arte in sedi educative e per utenti che dovrebbero piuttosto essere chiamati «allievi».
D’altro canto è proprio dalla possibilità di accedere sia alle nostre risorse che a quelle rese disponibili da autori e distributori, e dalla correlabilità di tutte queste risorse con i nostri Sistemi di Studio Reticolari, che nascono anche i nostri progetti di mostre virtuali e di spettacoli virtuali.
Noi indichiamo sempre in ogni nostro strumento educativo e formativo che siamo pronti a eliminare qualunque collegamento a risorsa che i legittimi aventi diritto ritengano lesivo dei loro diritti d’uso commerciale, Ma al contempo spieghiamo sempre che i legittimi proprietari di quelle opere, di cui indaghiamo le architetture ed esploriamo le correlazioni, dovrebbero piuttosto ringraziarci per la promozione indiretta che facciamo di ciò che loro possiedono, facendo venire voglia ai nostri allievi di conoscere integralmente le opere che, attraverso i nostri strumenti di studio, possono solo scoprire e conoscere parzialmente, per ciò che le lega ad altre opere di altri altri autori.
Per concludere questo discorso introduttivo intorno alle questioni metodologiche che noi ci poniamo nell’affrontare ogni progetto espositivo, vogliamo riassumere alcune idee che troverete applicate in tutti i nostri progetti.
I nostri progetti espositivi vanno intesi anzitutto come modi per soddisfare gli interessi di chi, seguendo i nostri Cicli di Lezioni e usando i nostri Sistemi di Studio Reticolare, ha acquisito le capacità necessarie per poter comprendere e apprezzare la narrazione artistica, e perciò vuole mettersi alla prova su capolavori artistici complessi.
Ma vanno intesi anche come stimoli per far nascere nuovi interessi in chi si avvicina per la prima volta, con curiosità, ad opere che non conosce ancora o che ancora non riesce ad apprezzare pienamente; in chi, a causa della Scuola e dei Mass Media, si è tenuto lontano dai «classici», sia ignorandoli sia osservandoli con paraocchi ideologici, con letture riduttive, sbrigative e divulgative, che glieli hanno fatti rapidamente dimenticare, come fossero fenomeni superati e di scarso interesse per la contemporaneità.
I nostri Progetti di Mostre sono stati concepiti per far conoscere, a diversi tipi di utenti, autori e interpreti che si sono sfidati a distanza di spazio e tempo nel creare variazioni su una stessa materia narrativa.
Ma il nostro principale interesse per le Mostre sta nell’usarle per presentare quello che normalmente non si vede in una Mostra: la progettazione delle opere. Perciò, anche le Mostre per noi sono mezzi per realizzare «Progetti Meta- Iper- Narrativi», per parlare di «come» si crea e di come funziona un’opera d’arte, di come la si «interpreta» (in senso progettuale e realizzativo) per farne una messa in scena, di come la si studia prima progettualmente e poi analiticamente. Così ogni Mostra diventa l’occasione imperdibile per far conoscere l’immenso lavoro progettuale degli autori e il nondimeno complesso lavoro di chi, come noi, studia i capolavori della classicità per trarne e diffonderne i preziosi impliciti insegnamenti, per far emergere le innumerevoli correlazioni interne ed esterne ad essi.
Nelle nostre Esposizioni mostriamo infatti ciò che di solito non si racconta negli Spettacoli e nelle Pubblicazioni: i progetti degli autori, i meccanismi narrativi, le connessioni elaborative che essi hanno istituito nel creare nuove opere.
Per noi ogni Mostra è stata ed è un’opportunità per creare e rappresentare «labirinti narrativi», percorribili «da più prospettive e a più livelli» in uno «spazio polidimensionale», fisico o virtuale.
La «Mostra Virtuale» è per noi un’«espansione», non la «sostituzione» di una «Mostra fisica»: è un modo per consentire ai visitatori di «continuare» e «moltiplicare» i «viaggi conoscitivi» spingendosi oltre il tempo della visita fisica ed esplorando spazi più ampi di quelli allestiti per l’esposizione fisica, persino «correlando la mostra ad altre mostre».
Le nostre Mostre sono state pensate con «pochi oggetti e molti modi per osservarli», esplicitando le «prospettive di studio» e i «livelli analitici» secondo quel metodo detto “analitico parcellare” che abbiamo appreso dal nostro maestro e mentore Alberto Cirese.
Nelle nostre Mostre mettiamo a confronto numerosi grandi autori, interpreti, studiosi, intorno ai medesimi oggetti di studio; in tal modo possiamo esplicitare e studiare i «modi» con cui si possono trattare i medesimi temi. Facendo dialogare diversi autori tra loro intorno a uno stesso tema metodologico e morale esplicitiamo infatti i loro modi di pensare quando studiano un fenomeno ed elaborano un progetto narrativo. Così consentiamo ai nostri utenti di apprendere quegli «insegnamenti metodologici» che i maestri si tramandano, come in una staffetta, dall’uno all’altro.
Tornando sul problema della distinzione tra un un archivio relativo all’opera di un autore e una Mostra, noi riteniamo che una differenza non trascurabile sia nella possibilità di far dialogare, attraverso la Mostra (come accade in modo più articolato attraverso i nostri Sistemi di Studio Reticolare e i nostri Sentieri Esplorativi), l’opera di un autore con quella di altri autori, al di là dei confini di tempo, di spazio, e di forma espressiva e mediale.
Le nostre Mostre (Verne Melies Spielberg – Wagner, Stassen, Rackham – Shakespeare, Dulac, Rackham – Barrie, Rackham e i pittori vittoriani – Rossellini, Francesco d’Assisi, Alberti, Leonardo, Diderot e D’Alembert, …) mentre sono dedicate all’opera di un’autore tessono ed esplicitano quella «tela di correlazioni», con le opere dei suoi interlocutori indiretti, che la iscrivono in un più vasto progetto inter-autoriale. Le nostre Mostre nascono da progetti, opportunità, e risorse per mostrare al pubblico questi «dialoghi a distanza» e per far loro venir voglia di studiarli nei nostri Sistemi.
Il Museo ideale per noi è quello che da anni abbiamo proposto di creare rivolgendoci a diversi Enti e Istituzioni: un luogo sia fisico che virtuale per rappresentare adeguatamente le correlazioni tra le idee, le ricerche, i progetti e le Botteghe della tradizione umanistica. Abbiamo anche proposto che questo «Museo della Tradizione Umanistica» goda della guida virtuale di umanisti quasi nostri contemporanei, come Roberto Rossellini, che hanno ispirato l’ambizioso progetto. In questo spazio non si dovrebbero raccogliere i reperti già disponibili presso Siti e Musei, ma si potrebbero esplorare le correlazioni tra i documenti presenti in Siti e Musei esterni ad esso. Il nostro Museo non dovrebbe però essere inteso solo come un ambiente virtuale. Ad esso potrebbe essere associato anche un luogo fisico – una nuova «Bottega Umanistica al tempo del digitale» – dove si possa lavorare a creare «reticoli iper-informativi», da dove si possano ricercare documenti e correlazioni tra di essi grazie al lavoro sul campo di tanti ricercatori e studiosi autonomamente finanziati dalle istituzioni del loro Paese. E infine il Museo potrebbe ospitare una Scuola dove si possa insegnare questo nostro multiforme mestiere, che abbiamo imparato a svolgere bene in oltre quaranta anni di studi e di esperienze, per poterlo tramandare a nuove generazioni di umanisti.