La Scienza Segreta dell'Arte Narrativa
Il nuovo Portale dell’Istituto MetaCultura dedicato allo Studio della Narrazione Artistica in ogni Forma Espressiva. Un Ambiente educativo e formativo rivolto a chiunque, per passione o professione, voglia scoprire e apprendere, insegnare e praticare la lezione metodologica racchiusa nelle opere dei Maestri.
Chi siamo
5. Perché siamo Non Profit
È sempre in corso un’imbarazzante polemica intorno alle Associazioni Culturali, al
non profit, e più in generale all’etichetta «Educational» che si attribuisce alle attività considerate di «valore educativo». Se un extraterrestre si chiedesse “cosa è un’«Associazione Culturale», e cosa significa «non profit»”, e di conseguenza andasse alla ricerca di chi si considera o è considerato tale, finirebbe per nutrire molti dubbi intorno al senso di queste parole e al loro impiego, a dir poco disinvolto. Potremmo fare molti esempi riguardo gli usi inopportuni di questa espressione, ma preferiamo domandarci «cosa è l’Educational per noi», e per quali motivi abbiamo scelto di costituirci come «Associazione Culturale» e di operare nel «non profit».
Ci sembra che abbia senso parlare di «Associazione Culturale» quando un gruppo di persone si ritrova per fare delle attività mirate a favorire la crescita di loro stessi e del gruppo a cui appartengono (con ciò giustificando l’uso della parola “culturale”?); inoltre condivide al suo interno – tra i membri dell’associazione che si sono iscritti per svolgere e imparare a svolgere quelle attività – un patrimonio di risorse necessario per svolgere le attività, nonché i risultati delle attività stesse.
Ebbene, noi siamo un team di ricercatori, autori, docenti, riuniti come gruppo di «soci collaboratori» (a cui si aggiungono i soci «sostenitori»/«onorari»); a questo team è assegnato il compito di formare i nuovi collaboratori da includere nel team stesso, e di realizzare gli innovativi strumenti di studio che incrementano progressivamente la nostra proposta formativa e didattica. Il team produttivo si espande se includiamo i soggetti che, in qualità di «partner» (coproduttori, istituzionali, societari), investono nella realizzazione dei nostri Sistemi di Studio Reticolare e curano la distribuzione nel mondo Educational, aprendo punti di accesso locali, rivolgendo i nuovi strumenti formativi e didattici a Enti con vocazione Educational presenti sul loro territorio (Scuole, Conservatori, Biblioteche, Università …) e a «utenti intermedi» (insegnanti, bibliotecari e altri operatori), i quali a loro volta, utilizzando i nostri strumenti di studio, si formano e svolgono attività didattiche rivolte a un’«utenza finale» ancora più vasta (i loro utenti e studenti).
Particolare importanza riveste, in questo processo, la «comunità degli utenti intermedi (soprattutto insegnanti) e quella degli utenti finali (adulti non rassegnati, cercatori, e nostri allievi)», che consideriamo un complemento del nostro Istituto in quanto, sperimentando i nostri Sistemi, utilizzandoli in attività formative e didattiche sul territorio, ci aiutano – attraverso i feedback e una discussione ininterrotta al suo interno e con noi – a migliorarli. Anche gli utenti/soci sostenitori ci aiutano, con donazioni spontanee e con la loro ricerca di risorse documentali, a realizzare i servizi di cui essi stessi sono destinatari.
Il termine «Educational» indica per tutti noi una «vocazione» alla formazione e alla didattica e un’attenzione speciale nei confronti di quel mondo «educativo» che ha bisogno di servizi formativi e didattici adeguati per crescere e per far crescere i propri utenti. Con «mondo educativo» vogliamo riferirci nel senso più ampio sia all’educazione «di base» dei ragazzi e a quella «permanente» degli adulti, sia alla formazione «professionale» degli autori – narratori scrittori, sceneggiatori registi, cantastorie – nonché dei docenti.
Occupandoci di «Educational» ci rivolgiamo dunque a ragazzi e adulti che studiano e che vogliono continuare a studiare (magari anche da anziani), e a professionisti che non si sentono mai completamente formati e che perciò vogliono perfezionare la loro preparazione acquisendo sempre nuove competenze.
Questo tipo di attività «non profit» ha e deve continuare ad avere delle agevolazioni o facilitazioni, perché non fa parte del «mercato del lavoro», ma piuttosto costituisce una «zona franca» in cui si cresce e, indirettamente, ci si prepara anche ad esso, ad entrare in quello giusto e a svolgerlo meglio. Essa pertiene a un mondo che va considerato «complementare» a quello del mercato del lavoro, e che mai dovrebbe dipendere da esso, neppure quando quest’ultimo ne paga le spese per formare (disinteressatamente?) il proprio «personale» o il potenziale «pubblico» delle proprie offerte spettacolari ed editoriali.
Da ogni nuova proposta di legge riguardante la Scuola apprendiamo quante e quali siano le pressioni affinché la scuola, a partire da quella di base, sia «orientata al mercato» e «specializzi» da subito gli studenti, costringendoli, sin da piccoli, a fare scelte – inconsapevoli – e facendo loro iniziare, dai banchi di scuola, una carriera da futuri schiavi destinati a diventare quella manodopera di massa, alienata e senza diritti, che competerà con i sempre meno costosi e più obbedienti robot.
Uno dei nostri maestri, il grande studioso del comportamento umano Henri Laborit, in una delle ultime interviste dichiarava:
[…] è l’allargamento della conoscenza al numero più grande di persone quella da promuovere, e non la formazione
focalizzata su uno strumento per la produzione di merci nella prospettiva dell’acquisizione di un job. Quando si parla di «istruzione» non se ne precisa mai il contenuto, anche se tutti sono d’accordo a promuoverla per lottare contro la violenza, gli integralismi, i giudizi di valore, l’intolleranza. Sempre più si tratta di un’«istruzione focalizzata». Gli studenti arrivano all’università con l’unica speranza di acquisire le ridotte conoscenze utili a una attività professionale capace di procurar loro un job. Non vedo proprio come un’istruzione di questo tipo possa contrastare la violenza della guerra economica quando non fa che rafforzarla, amplificando la competizione a tutti i livelli d’organizzazione, dagli individui agli Stati. Anche l’iniziazione universitaria alle scienze cosiddette «umane» (psicologia, sociologia, economia e politica) è sfruttata al fine di una redditività commerciale all’interno delle imprese e sempre nell’ignoranza totale dei meccanismi di funzionamento di quello strumento che ha permesso di porle nella posizione di cui godono oggi, cioè del cervello umano in situazione sociale. Se si vuole trasmettere quella che io ho definito «informazione generalizzata» parallelamente a un’«informazione professionale focalizzata», si devono formare prima di tutto insegnanti che chiamerei «policoncettualisti». Presenti in ogni ordine e grado, dalle elementari all’università, essi sarebbero in grado, non essendo specializzati in un’unica materia, di riunire in una prospettiva globale e «interdisciplinare» le conoscenze trasmesse nel corso dell’anno e di stabilire «relazioni» – linguistiche, concettuali, storiche – tra gli elementi sparsi; relazioni che lo studente non ha tempo di stabilire per conto suo. Questo tipo di insegnante non dovrebbe approfondire una «tecnica», la cui acquisizione spesso richiede molto tempo, ma dovrebbe «favorire la formazione di una struttura mentale per livelli d’organizzazione e servomeccanismi». L’esercizio del «dubbio» dovrebbe essere una delle sue attività fondamentali, necessaria a favorire la «creatività». Dovrebbe inoltre avere un’informazione sufficiente sul versante biologico dei comportamenti. Se la felicità dell’uomo dipende dalla crescita economica, fino a che punto questa crescita è perseguibile? Ed è unicamente legata a quegli oggetti prodotti e venduti che la pubblicità ci insegna a considerare indispensabili per il nostro piacere, oggetti il cui possesso ci pone in una scala gerarchica di dominanza, dalla quale deriva l’immagine positiva di sé? Non è possibile immaginare «una crescita non di oggetti ma di idee, di concetti», legata alle «relazioni» e non alle cose, e ancor meno alle merci? Una crescita della «conoscenza gratuita»? […] Nelle sovvenzioni alla ricerca e allo sviluppo si capisce come la «ricerca» sia esclusivamente interessata allo «sviluppo», ovvero all’«incidenza commerciale» che permette di inserirsi nella guerra economica e di fornire agli Stati i mezzi per essere dominanti su scala planetaria!
L’arte e la scienza non sono solo il termometro di una Civiltà, ma anche il mezzo con cui una civiltà tramanda i propri ideali, il proprio sapere e le proprie competenze: e così continua a vivere. La cultura in senso antropologico – cioè l’insieme dei modi di vita quotidiani di una comunità – trae dallo stato della scienza e dell’arte ispirazioni e modelli che la qualificano e ne evitano il degrado. Sappiamo bene che serve a poco costringere gli studenti a seguire “corsi di legalità” e di “educazione civica”, “contro il bullismo”, “contro la mafia”, “contro le dipendenze dalle droghe, dall’alcool, dal gioco d’azzardo”, etc, se non si dà loro la possibilità di crescere, facendo cose che possano aiutarli a trovare un senso per la loro vita, cioè a sviluppare l’intelligenza, il gusto, le capacità di giudizio e di elaborazione. Senza acquisire ed esercitare queste capacità non potranno mai provare la soddisfazione di aver contribuito a proteggere e ad accrescere
quel tesoro di conoscenze scientifiche e di produzioni artistiche di cui il nostro paese è ancora immeritevole depositario. E il miglior modo per fare di loro dei nuovi «umanisti» rimane sempre quello di mostrare, con l’esempio, cosa si può ottenere – e come si può ottenerlo – disponendo delle capacità per fare arte e scienza. Sarebbe dunque importante che nella scuola, o meglio nel processo educativo, entrassero anche artisti e scienziati, se non direttamente almeno con la loro ricerca e i loro progetti, concorrendo indirettamente alla formazione dei nuovi futuri artisti e scienziati, appassionandoli a quello studio che porta a realizzare scoperte, invenzioni, capolavori. Ma se già nel nostro recente passato è stato difficile che artisti e scienziati si interessassero alla didattica, che dedicassero parte della loro attività a stimolare interessi e a insegnare come loro stessi erano riusciti a creare capolavori e a fare importanti scoperte (bisogna risalire alle Botteghe medioevali e rinascimentali per trovare un perfetto equilibrio tra ricerca e didattica), negli ultimi decenni la situazione è degenerata: la didattica è finita in mano a nefasti divulgatori (che finiscono per scoraggiare anziché incoraggiare lo studio); e il nostro patrimonio artistico e scientifico, finito in mano a disinvolti speculatori, non solo non è tutelato né disinteressatamente valorizzato, ma meno che mai è incrementato, proprio a causa della scarsità di grandi artisti e di grandi scienziati.
Se ancora il nostro Paese vive di rendita, conservando – male – un patrimonio artistico da tutti invidiato, difficilmente amovibile ma facilmente danneggiabile e deperibile, non si può ignorare che non ci sono più autori, studiosi, e soprattutto insegnanti, in grado di ricreare le condizioni perché esso continui ad aumentare.
D’altro canto, come avvertiva Laborit, sembra proprio che l’attuale «nuova scuola», adattandosi alla tendenza
autodistruttiva del mondo contemporaneo, abbia deciso di formare solo uomini di affari, imprenditori, manager, produttori, distributori, editori, speculatori, uomini di marketing dispensatori di consigli su come ottenere e riprodurre successi stagionali, su come identificare le aspettative del pubblico di massa e su come soddisfarle e sfruttarle, su come garantire successi basati su indagini di mercato, su come riciclare spazzatura e sfornare prodotti in serie che soddisfino il più largo numero di utenti. Il cinema, così come il teatro, la musica e le arti visive sono già in mano a manager, economisti, produttori che hanno come unico interesse quello di ottenere un guadagno immediato e di apparire sui massmedia come organizzatori e promotori di eventi eccezionali, con ciò ignorando qualunque progetto artistico e scientifico, che richiede necessariamente tempi più lunghi per recuperare gli investimenti.
Se nessuno degli attuali autori e studiosi per auto-investitura è più in grado di raccogliere e continuare a sviluppare la difficile eredità della tradizione umanistica – e di conseguenza non ha nulla da insegnare se non la propria esperienza limitata – occorre domandarsi come sia possibile tornare a fare arte con la scienza (e magari poi anche a insegnarla) a distanza di un secolo, o quasi, dagli ultimi capolavori degli ultimi maestri. Non può essere una scusa che le due guerre mondiali abbiano decimato artisti, scienziati e potenziali mentori degli artisti e scienziati del nostro presente e futuro. Nell’ultimo dopoguerra si è definitivamente accantonata la nostra tradizione umanistica, che aveva raggiunto livelli non facilmente riottenibili senza molti sforzi; si è preferito promuovere anche in Italia la cultura di massa di importazione, che aveva iniziato a colonizzare e globalizzare il mondo – quel mondo che prima si ispirava alla nostra tradizione umanistica – piuttosto che ricominciare, rimboccandoci le maniche, a creare le condizioni per tornare a fare arte con la scienza.
Si è «scelto» di operare un taglio con la tradizione umanistica, interpretandola come un fastidioso cordone
ombelicale piuttosto che come una preziosa eredità, certamente difficile da assumere ma necessaria per non impoverirci e degradarci. Si è preferito considerarla «superata» e non più praticabile, piuttosto che mettere in discussione le gravi incompetenze che rendevano difficoltoso ricominciare a coltivarla.
Giocando con le parole si è cominciato a parlare di sperimentazione di “nuovi linguaggi” e di “cultura del contemporaneo”, per mascherare un nuovo dilagante analfabetismo artistico che ci ha riportato tragicamente non alle «radici» della nostra civiltà ma al 
balbettio infantile di una società che non è più in grado di fare arte, scienza, e soprattutto arte con la scienza. Il relativismo culturale, una delle più pericolose ideologie del mondo contemporaneo, è stato lo strumento con cui si è livellato tutto, equiparando alto e basso, spazzatura e capolavori. Grazie all’adozione di una prospettiva così miope si giustificano e deresponsabilizzano gli autori dei disastri in cui versa il mondo contemporaneo devastato dall’incompetenza (che per comodità e opportunismo è considerata un’ “altra” o “diversa” competenza), dalle in-capacità di “autori” solo di nome che andrebbero accusati di di crimini contro l’umanità.
Come si potrebbe altrimenti accettare la devastazione architettonica subita dalle nostre città nell’ultimo secolo?



Come ci si potrebbe altrimenti rassegnare a vedere capolavori monumentali di valore universale circondati da orride costruzioni rappresentative solo dello stato di degrado culturale del mondo in cui sono state fatte. Solo in questa confusione simili opere possono essere presentate come nuove e diverse forme di arte, e gli attoniti fruitori possono essere trattati come destinatari ingrati e “impreparati” ad apprezzare il genio di autori che certamente un giorno verranno considerati anch’essi (da chi? Da bestie che non saranno più in grado di distinguere la qualità?) come artisti da rispettare e amare “al pari” gli altri.
Davvero pensate anche voi che una soluzione culturale valga l’altra? Davvero scambiereste una villa palladiana
con un’«abitazione» composta da un assemblaggio minimale di blocchi di cemento tubi e lamiere, e davvero la interpretereste come un’«architettura» di «stile moderno», «minimale» ispirata ad una «installazione» di «arte povera»?
L’attenzione esclusiva della cultura di massa per i fenomeni di moda, di interesse occasionale e stagionale e di valore meramente storico e antropologico – cioè rappresentativo dello stato in cui versa una società – va di pari passo con la disattenzione per il valore artistico universale di fenomeni che non possono essere trattati solo con categorie storico-sociologiche. Ci sono opere che per le
loro qualità noi tutti riconosciamo come patrimonio dell’umanità perché supereranno i successi o gli insuccessi stagionali e potranno essere e continuare ad essere apprezzate da generazioni di ogni tempo e luogo. Eppure il mondo contemporaneo, omologandole alla spazzatura che produce senza sosta per i voraci consumatori che ha diseducato nel gusto e nell’intelletto, non sembra più interessato a proteggere questi tesori né a domandarsi come continuare a creare.
Così, dal dopoguerra, in una Europa solo di nome che sembrava decisa a rinunciare agli ideali umanistici (ma non all’immobile e remunerativo “patrimonio” umanistico che ancora attira turisti e viaggiatori da tutto il mondo), mentre ci si faceva colonizzare, paradossalmente si è cominciato a sostenere che, al contrario, si stava cercando di superare la vergognosa esperienza colonizzatrice della cultura umanistica. Così ci si creava un alibi per prepararci ad abbandonare la nostra vera ricchezza a coloro che avrebbero saputo portarcela via per un pugno di riso.
A 

distanza di meno di un secolo possiamo già concludere che la «ricostruzione» del nostro Paese è stata soltanto economica (e temporanea, visti i risultati del «dopo-boom»); non ha riguardato il piano culturale, spirituale, morale, e di conseguenza ha creato le condizioni più favorevoli per un prevedibile degrado.
Proprio a causa di queste tristi premesse il nostro Paese è paradossalmente diventato più adatto a competere nel mondo spregiudicato della «comunicazione», dove si finge di saper fare, dove si vive di espedienti millantando competenze che non si possiedono più, ma che – con la giusta «narrazione» o, come si dice oggi, “storytelling” – si può riuscire a convincersi e a convincere – chi vuole crederci – di possederle ancora.
È chiaro che nel Paese che è stato la culla del Rinascimento è facile far credere ai turisti più ingenui di essere ancora la degna patria dei grandi scienziati e artisti che hanno contribuito a darci una fama ormai immeritata; ci si può persino illudere di continuare ad essere esportatori del «made in Italy»; ma mentre non si fa abbastanza per poter continuare ad essere competitivi nell’unico settore – quello dell’arte e della scienza – in cui eravamo insuperati, non ci accorgiamo che intanto, in ogni parte del mondo, c’è chi impara «come» fare meglio di noi persino quel che resta del «made in Italy», ormai peraltro identificabile solo nel cibo e nella moda, e facilmente imitabile a causa dei bassi livelli qualitativi a cui è giunto.
È evidente che è più comodo «fingere di essere ancora umanisti», interpretarne la parte per affascinare i turisti impreparati che vengono a visitare il nostro Paese, piuttosto che esserlo o cercare di diventarlo davvero. Riacquisire le competenze dei nostri avi comporterebbe un investimento di tempo, denaro ed energie, che certamente gli economisti e i manager della cultura considererebbero troppo dispendioso. Ma anche per questo c’è la «soluzione comunicativa», che trasforma magicamente l’«incompetenza» in una «nuova competenza», un po’ come l’«inabilità» in «diversa abilità». In Italia un «incapace» può prendere facilmente un attestato di «diversamente capace» da un altro «incapace, ma titolato» che cerca complici – per non smascherare la propria incompetenza – da coinvolgere nel suo piano diabolico di «scientificizzare» qualunque opinione e di «artisticizzare» qualunque fenomeno di costume, qualunque evento eccezionale, meglio se scandaloso, che attiri l’attenzione dei media. Questa incompetenza ormai diffusa dipende dalla decisione implicita di abbandonare la strada faticosa dell’apprendimento delle medesime capacità possedute dai nostri antenati; quelle competenze con le quali essi ci hanno lasciato testimonianze esemplari che che continuano a farci sognare di un tempo in cui non pochi sapevano creare capolavori come quelli che oggi consideriamo giustamente patrimonio dell’intera umanità.
Ora in questa situazione, in cui da troppo tempo mancano maestri in grado di insegnare alle nuove generazioni «come» fare ricerca in campo artistico e scientifico, è inutile andare a «cercare talenti»; se ve ne fossero ancora, essi dovrebbero essere riusciti a diventare tali da soli, da autodidatti, ricercando con umiltà insegnamenti metodologici nelle opere di maestri che non vengono neppure più prese in esame nelle attuali Università; le quali – salvo alcune incoraggianti
eccezioni – appaiono piuttosto ben decise a mantenere seppellita l’imbarazzante eredità umanistica, che non saprebbero più né comprendere né ovviamente insegnare.
Date queste premesse, riteniamo sia più utile domandarci come investire tempo e denaro per «formarne nuovi talenti», anziché «cercare invano «talenti nascosti o addirittura paradossalmente «inconsapevoli»; o, ancor peggio, «simulare la loro esistenza» attraverso delle rappresentazioni spettacolari a favore del pubblico credulone di improbabili «talent show».
Insomma, noi invitiamo i nostri potenziali partner a smettere di inseguire l’illusione di poter trovare un ago nel pagliaio, e di conseguenza a smettere anche di illudersi e fingere di averlo trovato; li sollecitiamo invece a tornare ad investire nella preparazione di reali nuovi talenti, anziché nella insostenibile promozione di falsi talenti attraverso una messinscena che maschera malamente una imbarazzante e ormai cronica assenza.
C’è un equivoco, che viene sostenuto dalla voluta confusione tra «uffici stampa/comunicazione» e «uffici educational» nei nostri Teatri, e che viene alimentato dalla cattiva gestione del mondo Educational da parte di comunicatori e pedagogisti piuttosto che da artisti e scienziati interessati a insegnare quanto sanno fare. Questo equivoco consiste nel
far coincidere l’«educational» con la «promozione» anziché con la «formazione». L’equivoco appare evidente quando, nel formare i formatori, si scambia il «saper insegnare» – che include ovviamente anche il saper creare interessi, oltre che soddisfarli, verso l’«oggetto di studio» – con il «saper vendere» l’«oggetto di discorso» (non più «di studio» dal momento che se ne parla ma non si studia). In questa prospettiva, se il mondo Educational scompare a favore del mondo del marketing, diventa anche difficile sostenere che il «non profit» non sia altro che un mero sostegno, neanche tanto indiretto, al «profit», cioè alla vendita di prodotti attraverso la loro «promozione» (marketing). Non ci sarebbe niente di male se la Scuola aiutasse anche a «far vendere» più «classici», ma questo non è il compito principale della Scuola. Il male ha inizio quando il mondo educational viene visto solo come un mezzo per far vendere più biglietti (magari a prezzo ridotto) di spettacoli orribili, per «educare» (o dovremmo dire «diseducare» e assuefare) il gusto degli studenti a fruire prodotti di bassa qualità, per convincere i potenziali «clienti» a comperare certi prodotti piuttosto che altri; per giunta stando bene attenti a non far scoprire, a quei potenziali «clienti», l’universo dei testi classici così come sono stati concepiti dai loro autori – non in versioni, riscritte, ridotte e attualizzate da qualche malfattore – che gli «interessati» promotori non hanno convenienza a (né capacità di) promuovere.
Il problema maggiore è che questa «accezione» di «educational» è tutta sbilanciata verso il «mercato» e il «profit», senza ritorni per il «non profit». Il mondo del «profit» non aiuta quello del «non profit» a fare meglio ciò che deve (cioè insegnare principi universali per studiare e fare arte e scienza, piuttosto che dispensare consigli per gli acquisti), ma anzi lo diseduca e lo prepara a diventare quel pubblico di «consumatori» che sarà poi il destinatario ideale dei discorsi promozionali dei televenditori e dei discorsi ideologici dei predicatori e dei politici.
Una «presentazione di uno spettacolo in cartellone» non è assimilabile, se non per opportunismo, a una «lezione interdisciplinare sulla narrazione artistica teatrale e sul capolavoro messo in scena»; è semmai più vicina a una di quelle «pubblicità redazionali», che, paradossalmente, vengono oggi presentate nei media come «critiche» disinteressate alle offerte degli spettacoli in corso.
Purtroppo l’Educational è diventato, soprattutto nel nostro Paese corrotto, il settore ideale per «assistere» (cioè «mantenere») i beneficiati dalla politica e garantire la loro una felice sopravvivenza; un settore in cui paradossalmente i veri assistiti sono coloro che si autoconvincono di svolgere un ruolo assistenziale importante per la società, dedicando a immaginari assistiti i loro «utili» (per se stessi) «sermoni ideologici» riguardo le ingiustizie subite dai più deboli. Il caso più perverso sono quelle società che nascono, da un po’ di anni, con l’ambiguo scopo di trasformare i disastri ambientali e sociali in «opportunità» da sfruttare, per lucrare su «progetti di ricostruzione», i cui primi e voraci beneficiari sono gli stessi, tutt’altro che disinteressati, «benefattori».
Così, per assurdo, a occuparsi di un mondo culturalmente degradato, che ha davvero sempre più bisogno di aiuto per risorgere dalle sue ceneri, sono proprio soggetti incapaci e mai cresciuti, pseudo-artisti e pseudo-studiosi che senza i loro benefattori politici si aggiungerebbero semplicemente a quel mondo disperato che si convincono di poter e saper aiutare. Grazie all’assistenzialismo politico, che ricambiano con servile
«propaganda», essi sono invece mantenuti in uno stato di beata inettitudine e presunzione: la presunzione di aiutare il sociale con le loro costose attività di «denuncia» e di «impegno» «civile» che si esauriscono in «interventi» senza utenti (che non occorrono, dal momento che è tutto «prepagato») e di cui quasi mai resta traccia.
Non è un segreto che nel nostro Paese l’Educational sia diventato il settore dove regna la maggiore incompetenza, dove si nasconde meglio il parente incapace di un uomo potente, e attraverso cui si possono dare aiuti ai sostenitori della politica senza rischio di farli passare come «mazzette» e «scambi» di favori. E’ anche il settore dove le professioni dello spettacolo e dell’educazione troppo spesso coincidono con i vaghi interessi adolescenziali di chi le pratica, e in cui slogan pedagogici e di «impegno civile» nascondono bene operazioni di marketing e propaganda. Per assurdo è anche un settore in cui si producono per lo più «eventi», e si sostiene l’«effimero», mentre si dovrebbe insegnare a riconoscere ciò che vi è di universale in fenomeni particolari, e ad apprezzare quelle opere classiche che hanno attraversato il tempo per giungere fino a noi e ricordarci di non sperperare risorse (pubbliche) in fenomeni di costume stagionali.
Noi riteniamo che chi intenda operare nel nostro settore, formativo e didattico – in qualità di ricercatore, di autore, di docente, o anche di utente – dovrebbe farlo non solo con competenza e per passione, ma anche per un ragionevole investimento nel proprio futuro e soprattutto in quello dei propri figli e nipoti.
Pensate a quanto tempo Italo Calvino ha dedicato a scrivere di letteratura oltre che a farla, a quanto ne hanno speso Alfred Hitchcock e François Truffaut parlando e scrivendo di cinema oltre che facendolo. Essi, rinunciando a «fare» un altro romanzo o un altro film, si dedicavano a «insegnare» ad altri «come farlo».
I pochi che presero responsabilmente la decisione di dedicare parte del proprio tempo a insegnare – metanarrando – ciò che avevano compreso dallo studio dei «classici»
(raccontandolo cioè in modo narrativo e artistico, in forma di «romanzo-filosofico», o di film-saggio come Orson Welles e Roberto Rossellini sono riusciti a fare) lo fecero non perché non sapevano fare arte con la scienza, ma perché si rendevano conto che se non si fossero formati gli autori del futuro, e se di questa formazione non se ne fossero occupati gli stessi autori ancora vivi, sarebbe stato inutile, in futuro, andare a ricercare nuovi autori o lanciare grida di allarme per il degrado culturale a cui sarebbero state condannate le nuove generazioni.
Chi ancora crede realmente nell’importanza del settore Educational per la salute dell’intera Società, e vi dedica buona parte delle
proprie energie e risorse, lo fa perché evidentemente è dotato di pensiero lungimirante. Ma non è necessario che lo faccia solo per spirito altruistico; può farlo persino pensando a se stesso, magari per avere un po’ più di persone con cui intendersi intorno a lui, o un po’ più di pubblico in grado di distinguere e di apprezzare le qualità del proprio lavoro, o un po’ più di potenziali collaboratori, produttori e distributori preparati su cui contare. Ma può farlo anche pensando altruisticamente al futuro che attende i propri nipoti.
Chi ama i classici, ama cioè sia fruirli che ispirarsi ad essi per cercare di fare cose altrettanto belle, ha il dovere di dedicare tempo all’Educational, altrimenti presto non ci saranno più editori che ripubblicheranno classici, distributori che scommetteranno nel riproporli, e pubblico che li cercherà, che vorrà leggerli e che sarà in grado di capirli e apprezzarli.
Occorre prendere atto che vi è una crisi profonda, e sperare che possa essere passeggera; ma occorre anche rendersi
conto che nel migliore dei casi – e cioè che ci si adoperi per formare nuovi autori – ci vorranno comunque anni prima che riconosceremo, in nuove opere, gli eredi di Italo Calvino, Eduardo De Filippo, Giuseppe Verdi, Alfred Hitchcock.
Nel frattempo, siamo davvero pronti a far finta che l’arte e la scienza siano fisiologicamente morte e che se ne possa fare a meno, o che si possa chiamare tutto “arte” e tutto “scienza”? Siamo davvero convinti che se oggi si può filmare con grande facilità usando un economico telefonino, tutti di conseguenza possano giustamente essere considerati “cineasti”, o meglio “autori di cortometraggi” purché, ovviamente, con “intenzioni di impegno civile”?
Se ancora è rimasta un po’ di dignità, in chi ha i mezzi per prendere decisioni di politica educativa e culturale, gli suggeriamo di rimboccarsi le maniche e smettere di «assistere» pseudo-autori e pseudo-scienziati incapaci (solo perché gli si vuole bene in quanto nostri figli o parenti), ma tornare invece a investire nella formazione di una nuova generazione di veri artisti e veri scienziati, fornendo loro gli insegnamenti dei grandi maestri di quel nostro più glorioso passato che noi stessi rischiamo di dimenticare.
«Educational» vuol dire quindi, per noi, formare il pubblico, gli autori, gli scienziati e i maestri del futuro. Vuol dire combattere la logica del marketing che insegue i gusti giovanili abbassando sempre di più la qualità dell’offerta, e che «rilegge» e «rivaluta» «successi» meramente economici e commerciali come fossero anche «capolavori artistici» (se fa profitto dunque è un capolavoro?). Se oggi viene considerato “maestro” chi riesce a ingannare tanti acquirenti, chi si arricchisce riciclando spazzatura e promuovendo rozzezza come nuova raffinatezza, noi pensiamo che sia ora di smettere di «investire» le poche risorse – riservate dalla politica ai settori «educazione e cultura» – per promuovere con esse prodotti indecenti e lanciare talenti inesistenti. Bisogna smettere di fare di un pubblico di adolescenti capricciosi l’ago della bilancia di una Civiltà che agonizza, ingannando il pubblico più ingenuo con l’illusione che chiunque possa divenire un autore di “prodotti di successo” che assomigliano stranamente a quelli che sapremmo fare tutti noi. E’ ora di spiegare ai nostri ragazzi che quando incontrano un docente o un artista che sa e fa cose che saprebbero dire o fare anche loro, non c’è da rallegrarsi, non significa che se quello ce l’ha fatta anche loro ce la faranno; perché quello evidentemente ce l’ha fatta non grazie alle sue – scarse – «competenze», ma grazie alle sue – importanti – «conoscenze» e parentele. Anziché giungere alla conclusione “allora anche io potrei occupare il suo posto, anche io potrei fare senza sforzo l’artista o l’insegnante”, essi dovrebbero iniziare a denunciare l’incompetenza che accomuna, in una triste complicità, falsi autori e ingenui fruitori, pessimi insegnanti e presuntuosi studenti.
Al contempo occorre riscoprire gli insegnamenti dei classici e quei rari autori-studiosi che hanno saputo comprenderli, studiandoli, anzitutto per rimetterli in scena e poi per creare nuove varianti dagli archetipi da quelli creati o adottati.

Noi riteniamo che, anziché investire in strategie comunicative per promuovere pessimi prodotti e per convincere i fruitori a vedere e applaudire i vestiti impercettibili del re nudo, occorra tornare a investire nella formazione degli autori, dei fruitori e dei formatori; e occorra tornare a competere sulla qualità dei prodotti, senza paura di confrontarsi con i capolavori del nostro passato, ma anzi assumendoli a modello per apprendere da essi come sono stati fatti.

È anche ora di tornare a insegnare «come» fare didattica seriamente, senza la quale non si può insegnare alle nuove generazioni «come» conseguire il ruolo di autori e scienziati del futuro, e, contemporaneamente, «come» riconoscere e apprezzare, da fruitori, sia le opere classiche del passato sia quelle eventuali del presente che possiedano le qualità per diventare nuovi classici.
Un altro aspetto che contraddistingue l’attività «non profit» di un’«Associazione Culturale» come la nostra – che ha scelto di lavorare per il mondo Educational – si può sintetizzare nell’espressione «investimento a lungo termine», che non vuol dire «investimento a perdere». Per realizzare strumenti scientifici e artistici adatti a insegnare «come si fa» arte con la scienza occorre infatti molto tempo e adeguata preparazione (noi formiamo appositamente i nostri autori e studiosi affinché imparino a fare cose che l’attuale Università non è più in grado di insegnare a fare, non potendo offrire loro una formazione adeguata); e questa attività ci impegna – in quanto formatori di nuovi autori e in quanto autori noi stessi dei «Sistemi di Studio Reticolare» – in progetti di durata pluriennale. La ricerca per migliorare i modelli di apprendimento e la metodologia formativa e didattica, lo studio delle soluzioni tecnologiche adeguate, nonché la formazione dei nostri stessi formatori e autori richiedono come presupposto la convinzione che sia opportuno investire tante risorse umane per tanto tempo, e che lo stesso recupero degli investimenti non sarà facile e immediato.
Allo stesso modo auspichiamo che gli autori, gli studiosi e i docenti da noi formati – anche attraverso gli stessi Sistemi di Studio Reticolare – capiscano che la nostra Civiltà moribonda, per riprendersi, ha bisogno non di pseudo-autori e pseudo-studiosi assistiti da uno Stato che finanzi i loro lavori a fondo perduto, ma di autori e studiosi pronti a investire e rischiare in proprio, a divenire di nuovo proprietari della loro attività e perciò interessati a farla bene e a curarla sotto ogni aspetto, non demandando ad altri la responsabilità della scarsa qualità raggiunta o dell’insuccesso conseguito. Noi speriamo che essi comprendano la necessità di ricominciare
a fare
come hanno fatto gli autori che hanno inventato il cinema, e i pochi che hanno fatto del cinema un’arte; coloro, cioè, che creavano capolavori ben sapendo che, rinunciando a produrre dei più immediatamente lucrosi fenomeni di costume, nel loro presente, avrebbero invece lasciato inestimabili opere classiche, immortali ed esemplari, alle generazioni future, ai loro stessi eredi.
In questo momento è meglio non chiedersi chi mai potrebbe essere disposto a rinunciare a un grande guadagno immediato e a non cavalcare l’onda delle aspettative dell’abbrutito pubblico di massa, chi mai potrebbe decidere di lavorare tutta una vita per diventare non «famoso ora», ma «famoso per sempre».
Il degrado a cui assistiamo è dovuto per lo più proprio a questo nodo difficilmente districabile: nessuno vuole più investire sul futuro, sapendo che non ne farà parte (o come molti pensano oggi, che non ci sarà alcun futuro). Quanti direttori di Teatri, ad esempio, rinuncerebbero a investire su «eventi» provocatori e scandalistici che facciano parlare di loro, per investire piuttosto le «loro» risorse su piani formativi che possano creare nuovo pubblico e nuovi autori qualificati? Nell’attesa che questi ultimi abbiano acquisito capacità per apprezzare e per creare capolavori, gli attuali direttori non sarebbero più in carica o in vita a raccogliere il meritato successo, e dunque è comprensibile – anche se non condivisibile – che essi non abbiano alcun interesse a farsi promotori di un simile investimento sul futuro. Per loro è meglio lasciare il compito a chi li seguirà, cercando piuttosto di diventare famosi per avere ripianato i debiti di un Teatro attraverso iniziative turistiche che degraderanno ancor di più la qualità dell’offerta e diseducheranno il gusto del pubblico (ogni riferimento a persone conosciute durante la nostra lunga attività è puramente casuale). Essi sanno bene che oggi chiunque porti pubblico in sala è considerato un «maestro», anche se per farlo rende il pubblico ancor più incapace di apprezzare il bello.
Detto questo, e scusandoci per il piccolo sfogo, anziché continuare a soffermarci sul deprimente presente, noi preferiamo parlarvi di come intendiamo preparare per voi, e per i vostri ragazzi e allievi, un futuro migliore. In questo Portale troverete un’ampia e articolata descrizione degli Ambienti di Studio che intendiamo attivare, nella Nostra Scuola, e dei Progetti che intendiamo realizzare, per fornirvi strumenti di studio adeguati.
Tornando all’argomento di questa pagina, per noi agire nel «non profit» implica che nessuno di noi guadagni dalla distribuzione dei risultati dell’attività, e che ogni introito ottenuto – grazie ai contributi dei sostenitori o dei partner – per la realizzazione degli strumenti formativi e didattici (perché si tratta di realizzare nuovi strumenti per fare seriamente didattica e formazione anche sfruttando potenzialità di tecnologie oggi finalmente disponibili) sia investito nella copertura delle spese per la progettazione e realizzazione di nuovi Sistemi di Studio.
Così noi intendiamo anche il ruolo dei nostri «partner», che ricerchiamo non tra speculatori interessati a fare affari con l’Educational, ma semmai tra lungimiranti investitori interessati a far crescere il potenziale mercato dei loro utenti; imprenditori intelligenti che capiscano che, formando il pubblico e i nuovi autori, otterranno sia nuovo interesse per i testi classici che potrebbero distribuire, sia nuovi testi classici da distribuire in tutto il mondo, sia infine un meritato prestigio come promotori dell’arte, della scienza e dell’educazione. Noi riteniamo che in un futuro in cui finalmente i «contenuti digitali» potranno essere valutati per le loro reali e non millantate qualità, l’Educational avrà di nuovo un ruolo fondamentale nel preparare i fruitori a riconoscere e apprezzare ogni capolavoro artistico in ogni forma espressiva, nel formare gli autori e gli studiosi affinché sappiano fare e indagare l’arte con metodo scientifico, nel formare gli insegnanti affinché sappiano insegnare come fare e studiare l’arte con «strumenti» scientifici, anziché trattare l’arte e la scienza come «materie» separate.
Per concludere, pensiamo che il mondo Educational vada sostenuto e protetto perché riguarda i momenti cruciali in cui è in gioco la preparazione degli individui a entrare in società, a divenire persone migliori, a conservare e sviluppare patrimoni artistici e scientifici, e a collaborare tra loro per mantenere viva l’eredità di un mondo che ha investito su di loro, e che ha seminato tanto, prima di loro, affinché, anche dopo di loro, continuino ad esserci condizioni per fare arte e scienza.
Noi riteniamo che la formazione artistica e scientifica, la preparazione necessaria per godere dell’arte, per comprendere come è fatta e per valutare se dedicare ad essa la propria vita, nonché l’accesso stesso ad ogni opera d’arte ritenuta patrimonio dell’umanità siano diritti inviolabili e universali non meno importanti di quelli indicati dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani”, che, come tale, non dovrebbe riguardare solo la sopravvivenza degli individui e la necessità di soddisfare i loro bisogni primi, dal momento che è stata concepita per tutelare gli uomini e non altre specie animali.
A questo proposito, riteniamo anche che le attività Educational richiedano un diverso atteggiamento nei confronti del «diritto all’istruzione» e del «diritto d’autore». E anche da questo punto di vista il nostro Paese non è ancora riuscito a fare i passi necessari. Noi pensiamo che formatori e insegnanti, manuali e Sistemi di Studio, scuole, biblioteche e università vadano tutelati per il ruolo strategico che hanno nel ricreare le condizioni perché si possa fare arte e scienza.
Negli Ambienti di Studio Educational dovrebbe essere lecito, ad esempio, disporre liberamente di ogni tipo di testo, per far ricavare principi teorici e metodologici universali da casi particolari, e per farli riconoscere in ulteriori testi. Gli studenti dovrebbero poter esplorare e indagare ricercando correlazioni implicite tra innumerevoli risorse di biblio-media-teche multimediali, scoprendo e adoperando come bussola i principi narrativi condivisi tra i testi. Dovrebbero poter apprendere competenze e conoscenze mediante una continua retroazione tra la ricerca di applicazioni testuali e la definizione teorico-metodologica dei principi, tra manuali scientifici e monografie artistiche. Non si può parlare di pittura, di letteratura, di cinema, di musica, senza far vedere e ascoltare adeguatamente gli oggetti di studio per coglierne le qualità. Sia chiaro che noi non pensiamo che per studiare e confrontare le opere degli autori occorra disporre della medesima qualità che si ottiene dalla fruizione dei prodotti editoriali ad altissima definizione oggi in commercio o in streaming sulle piattaforme; ma la loro possibilità di consultazione, sia pure «parziale e degradata», va sempre garantita e consentita a chi fa attività Educational.
Semmai andrebbe anche valorizzato l’apporto dell’Educational al mercato della distribuzione dei contenuti digitali. In questo senso auspichiamo che proprio i grandi distributori dei contenuti digitali, anziché essere avversari dell’Educational, e vedere in esso un nemico che lede i loro diritti di distribuzione, siano i primi sostenitori del suo sviluppo. Ci piacerebbe che arrivassero a considerare l’Educational come una forma di promozione intelligente che loro stessi per primi potrebbero adottare e sostenere, piuttosto che cercare di controllarla e limitarla. Coprendo le spese dell’Educational per formare pubblico, autori e insegnanti, essi potrebbero ottenere un indiretto ma sicuro guadagno nell’accrescimento della loro utenza.
Ogni nostro «Sistema di Studio Reticolare» (da non confondere con un semplice «libro elettronico», «versione digitale» magari «espansa» del «libro cartaceo») promuove indirettamente la fruizione dei capolavori di cui parla, e di cui mostra parti (scene, capitoli) valorizzando le «correlazioni implicite» tra essi in base ai «principi di narrazione e composizione» presenti in essi.

Ci aspettiamo che nel futuro, tra i nostri partner societari e coproduttori, vi siano anche i grandi distributori di contenuti digitali, proprio per le indubbie sinergie e i reciproci interessi che l’Educational e questo nuovo mercato distributivo potrebbero trovare: da un lato infatti noi promuoviamo proprio i «titoli» che per un distributore di contenuti digitali sono più difficili da vendere, in quanto non sono promossi dai massmedia, interessati solo alle novità; da un altro lato un distributore di contenuti digitali potrebbe/dovrebbe distribuire anche i testi classici, che costituiscono la materia, le risorse, e l’oggetto primario di studio dei nostri Sistemi, ovvero di chi, attraverso i nostri Sistemi, potrà imparare a fare e ad apprezzare i prodotti artistici; quei prodotti di qualità che i distributori di contenuti potrebbero offrire in maggior quantità, qualora considerassero più attentamente quel potenziale mercato promosso, formato e stimolato dalla nostra attività educational.