Come tutte le ricorrenze, il bicentenario Verdi-Wagner avrebbe potuto costituire una buona occasione per riconsiderare quei luoghi comuni che nel tempo si accumulano intorno a grandi autori divenendo parte della loro stessa fama. Al contrario, anche questa ricorrenza è finita per rivelarsi un’occasione per consolidare tali pregiudizi, e per ridurre il valore della ricerca e dell’opera di questi due grandi autori entro i confini angusti e immeritati della «storicizzazione» e della «lettura ideologica».
Ci sarebbe molto da dire sulla triste abitudine – da parte dei media, degli editori, delle Istituzioni Culturali – di ricordare i grandi autori solo in occasione di ricorrenze, per riabbandonarli all’oblio nei tempi intermedi. Ma almeno potremmo rallegrarci un poco se i Centenari servissero – pur per un breve periodo – a ridare voce ai nostri ignorati maestri, per esempio ristampando la loro opera, ricercando e distribuendo i loro interventi perduti in archivi e magazzini, promuovendo ricerche e progetti per far conoscere «direttamente» il loro lavoro. Invece i Centenari sono per lo più occasione per dare lavoro soprattutto a speculatori che approfittano delle ricorrenze e della celebrità sia pure appannata dei grandi vecchi per autocelebrarsi nonché per arrichirsi alle loro spalle; tanto è certo che non potranno lamentarsi diquello che gli faranno dire per interposta persona e per come verranno usati a fini propagandistici e personalistici. Non fa eccezione questo bicentenario che nonostante i nomi eccellenti e ancora ben presenti nella memoria collettiva per i tanti stereotipi con cui sono ricordati, ha disatteso persino la più semplice e ovvia delle aspettative: la ristampa o addirittura per l’Italia la pubblicazione inedita degli progetti e degli studi di questi autori che potrebbero contribuire anche da morti a mantenere viva quella tradizione umanistica di cui sono stati al contempo eredi e continuatori lasciandoci sciaguratamente il compito di tramandarla.
Mentre tutto il patrimonio del teatro musicale – una di quelle risorse che il nostro paese potrebbe valorizzare per il know how insito in esso – langue per una malattia che lo ha reso oggetto di interesse solo per i melomani, per gli specialisti e per una generazione in via di estinzione (al fuori dal nostro paese l’interesse per la lirica è ancora vivo, anche solo per l’effetto esotico di cui continua a godere), l’occasione per celebrare questi due autori si è di nuovo esaurito per lo più intorno a una rinnovata e insensata ricerca dello scontro tra fazioni – tra verdiani e wagneriani – e ha finito ancora per alimentare quelle polemiche sensazionalistiche su cui si fonda tanta bassa divulgazione, da cui purtroppo non sono estranei neppure i libri di testo e i programmi scolastici. Per molti giornalisti, ma anche organizzatori culturali, riaccendere la fiamma dell’insofferenza tra i mondi di questi due autori, ricercando un po’ di facile consenso intorno a una riduttiva ma efficace opposizione di personalità, è sembrato il modo più adatto per creare interesse, considerando che la polemica e il gossip sono senz’altro il modo più veloce per creare la notizia e per renderla una «scioccante rivelazione» da inserire tra le «novità».
E’ sconfortante che due autori classici possano essere trattati riduttivamente e pretestuosamente come fenomeni antropologici rappresentativi del proprio tempo, da riesumare solo in occasioni di revival e ricorrenze storiche o da citare nei paragrafi previsti dai programmi settoriali della scuola, sottovalutando, o, peggio, nascondendo, il valore metodologico universale dei loro capolavori senza tempo. Ma appare ancora più preoccupante la lettura o rilettura sociologica e ideologica che l’occasione di celebrarli insieme sembra offrire: un ghiotto boccone per chi pensa che l’unico modo per far circolare il nostro patrimonio lirico-musicale sia quello di «attualizzarlo», strumentalizzandolo come «pretesto» per dibattiti politico-ideologici, giustificati da uno pseudo «impegno civile» che permette di «usare» l’arte, al pari di qualunque fenomeno di cronaca o di costume, per fare propaganda politica e ricercare consensi.
Molti pensano che sia un spreco di tempo e di energie cercare nel testo quel valore universale che può farne un classico capace di parlare a un pubblico di qualunque tempo, luogo o generazione – purché competente, cioè preparato per cogliere e apprezzare la complessità dell’arte; molti, infatti – a causa della loro incompetenza – ritengono che sia meglio (o addirittura che non ci sia altro modo che) usare il testo come «pre-testo» per parlare di ciò che sta intorno ad esso (ciò che lo precede e ciò che lo segue) piuttosto che studiare il testo come tale, indagando ciò che sta dentro di esso. In questo modo, anziché interrogarsi su cosa pensa l’autore, ci si domanda cosa ne pensa il pubblico di massa, quali letture riduttive ne faccia in base alle proprie aspettative, proiettandovi le superficiali categorie ideologiche apprese dalla scuola, dalla televisione o da internet. E così, anziché educare il pubblico allo studio della complessità del progetto artistico, lo si diseduca alimentando e giustificando i luoghi comuni con cui si accosta ad esso, quelli trasmessi da un’educazione scolastica ideologica e settoriale, e alimentati dal circolo vizioso del «sentito dire» creato con il rimbalzo tra la televisione ed internet. In questo contesto agiscono le due categorie di «critici» che anche nel nostro paese si spartiscono il mercato dellìopinionismo mediatico: i feticisti pseudofilologi che raccolgono preziosi cimeli, memorailia e gossip da dispensare a sorpresa centellinandoli come erudite scoperte paraarcheolgiche in convegni, saggi e ovviamente articoli sensazionalistici, soprattutto sulla scandalosa e trasgressiva vita privata degli artisti; e poi gli psicodietrologi che accorrono ad ogni ricorrenza ed incidentale occasione di dibattito per proiettare sul lavoro dei grandi le loro personali ossessioni e farci dono delle loro nevrotiche interpretazioni su ciò che secondo loro si nasconde dietro l’opera degli autori, e trattandoci in definitiva come il loro personale analista a cui rivelare il loro disturbato mondo interiore, ma dimenticando di chiederci il conto per averli ascoltati con pazienza senza cacciarli a pedate.
Ancora una volta a farne le spese sono gli autori, anche se le loro opere, in qualche modo, sopravviveranno alle mancate riedizioni così come alla mancata seria promozione e alla mancata seria didattica. I loro lavori rimarranno sepolti sotto la cenere per quelle generazioni future che, prima o poi, ritroveranno l’umiltà e il desiderio di accostarsi ad essi per apprenderne gli insegnamenti piuttosto che per commentarli sbrigativamente dal basso di una incompetenza da opinionisti. Tuttavia non possiamo non domandarci come mai nonostante le spese certamente preventivate per le effimere «Celebrazioni», nessuno in Italia abbia pensato di ripubblicare gli scritti già tradotti di Wagner quali Opera e dramma o L’opera d’arte dell’avvenire. Come mai nessuno ha pensato di ripubblicare o meglio pubblicare – essendosi interrotta prematuramente – la collana delle “Disposizioni sceniche” verdiane (e non solo verdiane) avviata dall’ormai scomparso editore Ricordi?
Chi, invece, subisce passivamente e irrimediabilmente questa situazione è il pubblico degli ignari, dei giovani soprattutto. Essi neppure immaginano che in queste opere è racchiuso quel «patrimonio di insegnamenti impliciti» che potrebbe costituire il fondamento scientifico da cui ripartire per far rinascere l’interrotta tradizione umanistica, vera ricchezza del nostro paese; una ricchezza che non va semplicemente commemorata come sacra reliquia da offrire alla curiosità dei turisti, ma studiata e insegnata come un’«insieme di competenze» da apprendere per poter ricominciare a fare arte al medesimo livello degli autori che ne sono stati protagonisti, considerati troppo spesso «superati», per non dire «irraggiungibili» proprio come la volpe dice dell’uva “acerba” a cui non arriva.
Non hanno di certo favorito un cambio di prospettiva quelle iniziative che, in occasione del bicentenario, si sono proposte di far conoscere questi due autori al pubblico più vasto sfruttando e alimentando un pretestuoso conflitto personale e ideologico tra di essi. A questo proposito non possiamo fare a meno di notare l’analogia di trattamento con altri «casi», non meno famosi, entrati nel medesimo modo a far parte dei dibattiti massmediologici di attualità, e quindi sofferenti degli stessi luoghi comuni alimentati da quelli. Si potrebbe infatti parlare del «caso» Ugo Foscolo / Vincenzo Monti allo stesso modo del «caso» Verdi / Wagner, e di come anche i primi siano stati giudicati dalla critica, dalla scuola e dal pubblico per il loro maggiore o minore «impegno civile», essendo facilmente «interpretabili», in questo senso, l’uno come «grande rivoluzionario» l’altro come «pericoloso conservatore».
Di questi tempi, in cui la produzione «contemporanea» per uscire dal ghetto dell’autocelebrazione, della trasgressione fine a se stessa e della sperimentazione di nuovi incomprensibili e tautologici linguaggi, usa la categoria dell’«impegno civile» per giustificare operazioni altrimenti ingiustificabili; una situazine in cui lo sperpero del denaro pubblico in iniziative che non asciano alcuna traccia nei luoghi dove si celebrano, maschera bene l’assistenzialismo a una casta di pseudo intellettuali e pseudo artisti che si convince di aiutare e assistere i più deboli nascondendo di essere loro i deboli inetti assistiti e aiutati dalla politica che li protegge, è chiaro che l’unica chiave in cui potevano venir considerati, o peggio «riletti» anche questi due grandi autori è stata il loro presunto maggiore o minore «impegno civile».
La scuola per prima, proprio come i mass media, insegna a considerare gli autori più per ragioni ideologiche che per ragioni artistiche, in opposizione tra loro anziché in reciproca correlazione. Sicuramente ciò è dovuto alla semplice ragione che è molto più conveniente invocare facili opposizioni ideologiche che cimentarsi nello studio dei testi per ricercare affinità non immediatamente identificabili. Estendendo anche al teatro musicale quello che sottolineò il critico Asor Rosa in occasione della presentazione del suo studio enciclopedico della letteratura italiana, a suo avviso troppo condizionata dal «modello desanctisiano», si potrebbe dire che molti autori sono troppo spesso sottovalutati o sopravvalutati perché opposti «ideologicamente» anziché accostati «metodologicamente»:
“… mi sembra che il modello desanctisiano comporti la presenza di un certo tipo di ideologia. La letteratura è per lui una delle tante manifestazioni della vita morale che a sua volta è il riflesso della vita civile di un popolo. Ebbene questo modo di guardare ai testi non ne mette in evidenza tutta la potenziale ricchezza; i testi sono qualcosa di più complesso, di più contraddittorio. […] bisognerebbe occuparsi meno di ciò che questi autori hanno detto e più di come, con quali innovazioni di linguaggio hanno scritto. […] se si dedica maggiore attenzione al linguaggio ma soprattutto alla comparazione tra i linguaggi nelle diverse arti, per esempio quelle figurative quelle musicali, se insomma lasciamo perdere il falso principio della sostanziale autonomia del linguaggio letterario, scopriamo innovazioni geniali, di enorme portata. Un metodo che privilegia nel testo la presenza o la capacità di evocare una tensione civile lascia di fatto in ombra altre a mio avviso ben più importanti qualità degli autori. […] Nell’ottocento, il secolo in cui si è fatta l’Italia, abbiamo due poeti di grande levatura, Foscolo e Leopardi, non capiti e sacrificati sempre nel senso di cui abbiamo appena parlato, ovviamente. Anche Foscolo è infatti valorizzato come poeta civile. Ma proviamo invece a leggere I sepolcri dal punto di vista della modernità del linguaggio e della costruzione poetica. Ci accorgeremo di quanto Foscolo abbia contato nel fenomeno neoclassico non solo a livello italiano ma europeo. Per non parlare di Leopardi, che è un altro grandissimo poeta dell’ottocento per intuizione moderna dei caratteri della poesia, ed è invece stato trattato quasi esclusivamente per il contenuto dei suoi versi, il “pessimismo leopardiano” utile, secondo De Santis, a suscitare nel lettore e nel critico sentimenti etici in contrasto con quelli dell’autore, o da classificare addirittura, secondo Croce, come un caso patologico. Come ormai evidente, questo metodo di classificazione e di giudizio, oltre a risentire più di altri del tempo dei cambiamenti di prospettiva storico politica (oggi appare ridicolo vedere sette secoli di letteratura tutti tesi a costruire l’Italia) non prende in considerazione poeti e letterati per ciò che essi sono prima di ogni altra cosa: degli scrittori. Penso che persino Manzoni, se si riuscisse nell’impresa ciclopica di scollarlo dall’immagine di padre della patria e delle lettere nazionali moderne, potrebbe essere ristudiato e riservarci delle sorprese. Certo i desanctisiani e la scuola hanno fatto di tutto per rendere Manzoni quasi insopportabile. Hanno dato rilievo al fatto che avesse messo le sue capacità al servizio dell’ideologia, e nel suo nome hanno enfatizzato tutti gli autori che si sono impegnati a dare una coscienza unitaria all’Italia. E marginalizzato gli altri, quelli che come Leopardi non alzavano il tricolore. Ed ecco così pagine e pagine di storia della letteratura piene di omaggi agli spiriti civili che si sono caratterizzati per la loro italianità (Manzoni, Parini, Alfieri e lo stesso Foscolo letto è usato per il verso sbagliato) e la quasi esplicita condanna degli altri. Bisogna dire con franchezza che se il metro di giudizio fosse un altro, a Manzoni toccherebbe un drastico ridimensionamento. […] Il metodo desanctisiano era appunto un modo di guardare alla storia della nostra letteratura storicista e contenutista, ed è sopravvissuto alla morte di De Sanctis.”
Si potrebbe parlare a lungo della rilettura dei «classici» che è stata fatta – senza attendere centenari – dallo stesso Asor Rosa o da altri studiosi non condizionati ideologicamente – come ad esempio Italo Calvino, nel ruolo di saggista – che, proprio in un’epoca disattenta al proprio patrimonio umanistico, considerato superato dalla «contemporaneità» – hanno contribuito a rivalutare tanti grandi autori per le loro «qualità artistiche» piuttosto che per il loro reale o presunto «impegno civile».
Per il «caso Verdi/Wagner» vale quello che si può dire per tutti gli artisti per i quali si è tentata una strumentalizzazione o una riduzione del loro talento da parte di interpreti mediocri, sociologi, storici, politici spregiudicati disposti a «usarli» per i loro fini. Facendo leva sulla personalità, il nome, la vita leggendaria degli autori, essi sono riusciti spesso ad offuscare, agli occhi del pubblico, le qualità artistiche dei testi, e ad esaltare invece quegli aspetti della vita degli autori interpretabili politicamente, suscettibili cioè di diverse possibili strumentalizzazioni in tal senso, positive o negative.
E’ esattamente quello che si è cercato di fare per tanti altri autori, più di recente ad esempio per Roberto Rossellini, un autore considerato quasi come un partigiano piuttosto che come un grande narratore e soprattutto un grande umanista, motivo per cui si ricordano di quest’autore solo i film che possano essere utilizzati come rappresentativi di un atteggiamento politico nei confronti della liberazione del nostro paese dall’oppressione nazista, o, al contrario, quei film che possano gettare una luce ambigua, persino negativa, su di lui perché strumentalizzabili da opposte fazioni.
Allo stesso modo si potrebbe parlare del grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwangler, di come è stato trattato e giudicato alla fine dell’ultimo conflitto mondiale per essere rimasto in Germania e per aver diretto davanti al Reich.
Si potrebbe anche ricordare che persino il genio di Walt Disney è stato oscurato dai giudizi intorno alla sua personalità, considerata ambigua e pericolosa per le sue presunte posizioni politiche; proprio come Richard Wagner o il grande illustratore della sua opera, Franz Stassen, caduto in disgrazia per essere stato apprezzato dal regime nazista.
Anche il «caso Verdi/Wagner» va dunque considerato come tutti quei casi in cui autori molto noti sono stati giudicati per le loro idee politiche più che per le loro opere, per la loro vita più che per la loro ricerca artistica; autori vittime di pregiudizi ideologici che hanno pesato sulla valutazione delle qualità straordinarie dei loro capolavori. Questi «casi», che si riaprono in occasione di ricorrenze storiche, potrebbero costituire persino una buona occasione per ridiscutere, viceversa, proprio in ambito didattico, una concezione ideologica come quella desanctisiana, su cui Asor Rosa invitava a riflettere, che ha condizionato per tanto tempo lo studio della letteratura italiana. Si potrebbe, in questa prospettiva metodologica, ridiscutere i giudizi sul talento artistico di molti autori senza farsi condizionare dalle strumentalizzazioni ideologiche che ne sono state fatte sia in senso positivo che negativo, sia pure avvalorate, a volte, dalle posizioni politiche personali prese dagli stessi autori nella loro vita.
In questo caso specifico, anziché puntare il dito sulle scelte di vita di questi due autori, varrebbe la pena esplorare i testi per capire se e in quale misura essi siano condizionati dalle loro simpatie ideologiche; e anziché ricercare significati dietrologici, sarebbe più utile domandarsi per quali ragioni la complessità delle loro opere venga ridotta ai luoghi comuni proiettati su di esse tanto dal lettore ingenuo, quanto dall’insegnante impreparato quanto ancora dal critico militante.
Insomma, di fronte ad autori che pure, per la loro biografia, si prestano ad essere considerati esempi di impegno civile in senso positivo o negativo, sarebbe meglio chiedersi, a nostro avviso, se il criterio di «impegno civile» usato dai critici, dagli insegnanti o dai seplici lettori, sia adeguato per lo studio di testi artistici, le cui qualità non possono certo consistere nella loro maggiore o minore adattabilità a rappresentare le idee politiche degli autori o a sostenere quelle del critico/insegnante/fruitore che intenda piegarle ai propri scopi. in altre parole, mentre ci si interroga sulle idee politiche di Verdi o di Wagner, perché non ci si interroga sulla pertinenza di tali interrogativi per spiegare la complessità e universalità dei loro capolavori? Perché non ci si chiede, invece, se una critica, una didattica e una lettura ideologica basate sul concetto di autore/critico/lettore impegnato a fare propaganda politica sia o no adeguata a penetrare la profondità di un testo classico costruito per superare il proprio tempo e le barriere ideologiche entro cui il critico/insegnante/fruitore è invece imprigionato? Non è certo a Wagner o a Verdi che va imputata la lettura ideologica, in chiave risorgimentale o nazista, della loro opera, ma a quei critici/insegnanti/fruitori incompetenti che ricorrono all’ideologia – in mancanza di altri strumenti – per valutare i testi artistici.
I testi, per fortuna, sopravvivono alle ideologie e ai tentativi di storicizzarli, di considerarli cioè rappresentativi dei costumi e delle idee standardizzate del proprio tempo, al pari dei testi giornalistici o di qualunque altro documento possa essere conservato in quanto reperto rappresentativo di un fenomeno di pertinenza storica o antropologica.
Non è forse proprio nel nostro paese che si utilizza tanto spesso il termine “autore” per denotare non le qualità di un artista ma quelle di chi si impegna a fare propaganda politica, di chi si dimostra apparentemente disinteressato a «vili successi commerciali», forse perché le sue imprese sono finanziate a priori, indipendentemente dai risultati? Il luogo comune costituito dall’opposizione tra «commerciale» e «impegnato», che ancora si adotta implicitamente nei discorsi sul cinema, sulla letteratura e sul teatro, costituisce un presupposto implicito che rivela indirettamente quanto la critica, come la didattica, siano ancora impregnate di ideologia, e quanto gli studi umanistici abbiano perso di scientificità a favore di una opportunistica strumentalizzazione socio-politica.
Sono infatti i concetti (non i nomi) di «arte» e di «scienza» ad essere usciti di scena per dar spazio a quelli di economia e di politica; si parla infatti ormai abitualmente di “economia della cultura” e di “politiche culturali” così come si creano cattedre di “scienze di ogni cosa”; e l’appellativo di “artista” viene ormai attribuito a chiunque pratichi una qualche forma di espressione o, come si dice oggi, di “arte”. In base a tali criteri economici e politici il successo di un testo e l’autorevolezza di un autore vengono giudicati da un lato secondo il numero di copie vendute e da un altro secondo le simpatie politiche suscitate o invocate magari attraverso l’accorta scelta di un tema di attualità a cui riferirsi simbolicamente.
Nella scuola che ancora adotta la concezione desanctisiana e che insegna che «quello che viene dopo è meglio», mentre «quello che viene prima è superato» (tanto varrebbe studiare solo libri sulla contemporaneità), si finisce per far odiare i classici, come lo stesso Asor Rosa o Italo Calvino ci ricordano (ma basterebbe chiedere ai nostri figli o ricercare tra i nostri ricordi); a questo punto ci si potrebbe augurare che certi classici escano dai programmi scolastici piuttosto che risiedervi per essere trasformati in incubi, come oggetti da studiare «per dovere», destinati a innescare quella terribile opposizione di cui sopra: infatti i testi «impegnati» si fruiscono e si studiano per «dovere» – come una dottrina o una purga – mentre quelli «commerciali» per piacere, o meglio per «intrattenimento».
Adottando queste categorie è difficile immaginare che le opere di Verdi e di Wagner possano essere oggetto di uno studio serio e al contempo piacevoleUno studio che faccia scoprire ai giovani lettori quanto i testi di questi due autori siano più complessi e affascinanti di qualunque succedaneo che ne imiti oggi inconsapevolmente le straordinarie soluzioni. D’altro canto, se i ragazzi amano Il Signore degli anelli perché non dovrebbero amare L’anello del Nibelungo, di fronte al quale il primo altro non è che la versione banale di una grande saga? Perché un giovane che piange davanti a un’ingenua commedia romantica contemporanea «di culto» non dovrebbe commuoversi con un melo ben più complesso e appassionante come Traviata? Il problema sta a nostro avviso nel «come» ci si avvicina a questi capolavori; e non è da sottovalutare il «come» li si mette in scena, spesso sottraendo, già nell’interpretazione registica, molto della loro complessità a favore di riduttive «attualizzazioni» in chiave ideologica.
I testi di Wagner e di Verdi postulano un destinatario in grado di destreggiarsi tra più piani espressivi per poter cogliere il diverso apporto di essi alla complessità narrativa; un destinatario che non c’è più ma che si può ancora formare; un destinatario che trarrà da questa formazione la capacità non solo di comprendere e apprezzare l’opera di questi e di altri grandi autori, ma anche di poter lui stesso sperimentare in prima persona una forma di narrazione propriamente «poli-espressiva».
Ma per far questo non basta consultare diversi studi letterari, musicali, e teatrali in rapporto a un medesimo capolavoro di uno di questi due autori. I tanti saggi che vengono scritti ad esempio per i programmi di sala delle messe in scena non sono in genere articolati «scena per scena», non ricercano nella totalità del testo «gli elementi e le regole» ricorrenti che ne governano il funzionamento, ma sono condotti su un solo piano espressivo e con competenze settoriali; di conseguenza possono cogliere un solo livello del racconto, e tuttavia spesso finiscono per usarlo «riduzionisticamente» per interpretare l’intera costruzione narrativa, trascurando il valore degli altri piani espressivi in un’opera che viceversa funziona solo grazie all’interazione «complementare» di essi.
Per studiare queste opere occorre da un lato una competenza propriamente narrativa – per riordinare sul piano narrativo tutte le informazioni veicolate dai diversi piani espressivi – e da un altro una competenza poli-espressiva – per identificare in ogni piano espressivo i tratti pertinenti per ricavare le informazioni che l’autore ha affidato ad essi in rapporto al piano narrativo comune.
D’altro canto anche la scuola – come la televisione o l’Internet di Wikipedia – propone all’utente sprovveduto paginette divulgative, schede riassuntive sugli autori che contribuiscono a creare e a diffondere stereotipi su di essi. La divulgazione pedagogica – al di là delle intenzioni, a volte sincere – anziché stimolare interrogativi crea false sicurezze e smercia facili e false conoscenze a buon mercato, luoghi comuni di cui gli stessi lettori diventano portatori impliciti e inconsapevoli. La divulgazione non aiuta la comprensione dell’opera di questi autori ma anzi la allontana, perché con l’illusione della conoscenza spegne la curiosità e il dubbio. Meglio la sana consapevolezza della propria ignoranza, che spinge almeno ad avvicinarsi ai testi artistici con la necessaria umiltà per poter capire cosa occorre imparare, di quali strumenti occorre dotarsi per poter arrivare a comprenderli e ad apprezzarli a pieno.
Premesso tutto questo, il bicentenario Verdi-Wagner avrebbe potuto essere una grande occasione per studiare quali aspetti metodologici abbiano in comune le ricerche ei progetti di questi due autori, quale cammino parallelo abbiano percorso nella stessa direzione, quali medesime questioni hanno dovuto affrontare e quali soluzioni originali abbiano elaborato intorno ad esse.
Il bicentenario poteva essere l’occasione giusta per indagare e far conoscere le affinità di pensiero tra due grandi artisti che, come tutti i grandi autori eredi di una tradizione umanistica importante, hanno raccolto quegli interrogativi che prima di loro già altri grandi umanisti si erano posti, e li hanno rilanciati alle generazioni successive caricandoli di tutte le loro personali riflessioni; i loro capolavori, confrontati a distanza di tempo e con un metro di paragone non ideologico ma metodologico, ci permettono di vedere quanto questi due autori abbiano in comune piuttosto che in opposizione tra loro. In questa prospettiva il bicentenario poteva essere un’occasione per riconsiderare gli apporti reali di questi due autori all’evoluzione del teatro musicale; un’occasione per valutare le loro idee «rivoluzionarie» riguardo al modo di raccontare e non alle loro scelte di vita. Ma anche un’occasione per aiutare i giovani che si accostano ora ai lavori questi due grandi maestri, affinché non commettano l’errore di giudicarli superficialmente, sbrigativamente e sommariamente, per meriti o demeriti che non dipendono dalla qualità delle loro opere.
Su questo piano squisitamente metodologico si possono scoprire molte delle qualità che accomunano questi due grandi autori. Due autori che hanno condiviso un cammino parallelo verso una concezione propriamente «multimediale» del progetto narrativo e della sua messa in scena. Un cammino che vorremmo far divenire oggetto di una proposta metodologica per la scuola e per la formazione a tutti i livelli.