Mostre

Le Mostre

Lo spazio espositivo di una mostra è per noi un’opportunità per sperimentare come costruire, anche con mezzi analogici, un complesso labirinto narrativo, ma è anche un’occasione per mostrare come si possano suggerire diversi complementari percorsi all’interno di esso, e da esso verso altri labirinti narrativi. 

Ogni volta che ci è capitata un’occasione, abbiamo sempre raccolto la sfida di esemplificare e spiegare, in forma narrativa e al contempo meta-narrativa, come si esplora l’opera di un autore, il suo universo narrativo e quello dei suoi maestri e allievi, rappresentando sia la complessità dei suoi «intrecci» sia quella delle sue «soluzioni compositive e narrative». Abbiamo anche cercato di mostrare come, a tale scopo, si possano utilizzare, adeguatamente e rigorosamente, gli stessi meccanismi scientifici che in genere sono perfettamente sono padroneggiati dai maestri oggetto delle mostra, ma sono per lo più ignorati dagli altri, cioè dai narratori improvvisati e dal pubblico, che preferisce credere nell’estro, nella genialità, nella magia dell’arte.

Da quando ci capitò di progettare la ristrutturazione di un intero museo di scienze biologiche, a quando ci siamo assunti l’incarico di onorare e rappresentare, attraverso una mostra modulare e potenzialmente permanente, il grande «progetto polienciclopedico» rosselliniano (raccontare sotto varie forme i dialoghi tra gli umanisti del passato e del presente), non abbiamo perso alcuna occasione per ripensare la progettazione museale e l’allestimento di spazi predefiniti, per rifunzionalizzarli allo scopo di creare labirinti della conoscenza con cui informare e formare il pubblico, e allo scopo di favorire l’avvicinamento di nuovi potenziali fruitori sia ai capolavori della nostra tradizione umanistica sia agli strumenti più adeguati per poterli comprendere e apprezzare. 

Prima di dedicare tutte le nostre energie alla progettazione e allo sviluppo digitale dei nostri “Sistemi di fruizione e studio reticolare della narrazione artistica”, ci siamo sforzati per anni di simulare e di visualizzare mappe e labirinti cognitivi anche senza l’ausilio di tecnologie più adatte a supportare le nostre ricerche e la nostra attività educativa.

L’organizzazione di spazi architettonici ci sembrava uno dei modi per rappresentare fisicamente quelle «connessioni reticolari implicite» e ideali tra le opere dei nostri maestri, anzitutto ripensando la loro sistemazione e disposizione in forma di biblio-media-teca, sfruttando, come in un famoso quadro di Escher, lo spazio tridimensionale in cui collocarle, e creando materialmente connessioni attraverso sistemi di scale, pavimentazioni trasparenti, pareti semoventi. 

Da allora abbiamo dovuto spesso ridimensionare i nostri progetti, nelle attuazioni, ma non nei nostri sogni a occhi aperti, che, grazie ai continui stimoli di un altro visionario ignorato ma lungimirante come Theodor Nelson, hanno continuato a svilupparsi attraverso gli strumenti digitali «iper-testuali». 

La visita allo studio di François Truffaut, prima del suo smantellamento alla morte del regista, ci aveva ulteriormente stimolato a immaginare come un «autore-studioso» potesse e dovesse organizzare e riorganizzare le sue risorse d’archivio per trarre di continuo stimoli, per collocare ogni nuova informazione e mantenere vivo il dialogo con e tra i propri maestri, compagni di viaggio, e allievi. 

Un saggio come quello di Umberto Eco intorno al “museo dei musei”, ma anche gli studi e i progetti di istituti culturali che, attraverso le tecnologie digitali, hanno ricostruito virtualmente e ipoteticamente le radici storiche e geografiche della nostra civiltà, ridando vita a ciò che ne resta nei siti archeologici, sono stati altrettanti stimoli a indirizzare la nostra ricerca verso ipotesi di «mostre virtuali» che, dalle mostre fisiche, traessero origine per guidare gli utenti in ulteriori e più vaste esplorazioni, non contenibili entro lo spazio e il tempo di una sola mostra per forza di cose limitata dal budget, dall’attenzione dei visitatori, dai beni disponibili da esporre …

Troppo spesso si sono pensate le mostre, così come i cataloghi, e i musei stessi, in base alle «collezioni» raccolte per ragioni raramente scientifiche, dovute piuttosto ai gusti di un collezionista o persino ai bottini di guerra e ai fasti di ambizioni imperialistiche. 

È un po’ quello che accade quando un editore ci chiede che cosa potremmo fare «solo» con il «suo» eterogeneo «catalogo», mentre ancora oggi, per poter studiare ed esplorare sistematicamente l’opera di qualunque autore della nostra tradizione umanistica, bisogna spostarsi e districarsi tra pubblicazioni parziali e parzialmente ridondanti, non più edite e inaccessibili, tra musei e collezioni pubbliche e private sparse nel mondo, e con poche e inadeguate bussole per orientarsi. Ogni volta dobbiamo chiarire che, per rappresentare e spiegare i «labirinti narrativi» creati da un autore, non bastano le «risorse» «irrelate» raccolte da un solo, sia pur benemerito, editore o collezionista o distributore o erede per caso; occorre raccogliere e far interagire molte più risorse sparse tra tanti soggetti (anche diversi editori oltre che diversi aventi diritto), e fare in modo che ciascuno comprenda la convenienza di sostenere – anziché di ostacolare – il progetto di uno «studio sistematico e reticolare»; questo necessita, per forza di cose, di consorziare e superare gli interessi dei singoli, regalando poi ad ognuno di essi «il valore aggiunto delle correlazioni» tra i propri documenti (di valore limitato se considerati da soli) e quelli in possesso di altri.

Solo prendendo in considerazione una «mostra virtuale» si può espandere, qualitativamente e quantitativamente, quello che si può fare lavorando in uno spazio fisico delimitato. Ed è all’interazione tra mostra «offline» e mostra «online», tra mostra «fisica» e mostra «virtuale» che vanno i nostri sforzi per «espandere» la progettualità del curatore della mostra e l’esperienza conoscitiva del visitatore.

Per anni abbiamo esemplificato come in una mostra fisica, lavorando bene sugli spazi, si possa dare la possibilità al visitatore di «ricavare molto dal poco» esposto, e si possa «rappresentare quel poco da una molteplicità di prospettive», ciascuna adeguata a rappresentare un aspetto della complessità contenuta, «isomorficamente», anche in un solo capolavoro di un autore. Abbiamo inoltre esemplificato come, al contempo, si possano mostrare le molteplici «correlazioni implicite» tra un capolavoro e altri capolavori dello stesso autore o di altri autori. 

Eppure le mostre che compaiono soprattutto nei circuiti minori hanno ancora ambizioni ingenuamente e maldestramente totalizzanti; sostituiscono cattive riproduzioni agli originali quando non possono esporli, e offrono un apparato critico divulgativo superficiale, che rafforza, anziché combattere, i luoghi comuni, che non rende giustizia agli autori e che non aiuta il pubblico a cogliere la «complessità» delle opere prese in esame, ma anzi lo illude di poterle comprendere offrendogliene una semplicistica «riduzione». 

A conforto delle soluzioni espositive da noi sperimentare, non possiamo che sostenere le ragioni di chi si oppone al trasferimento a scopo espositivo dei soliti famosi ma fragili capolavori tesori dell’umanità, per soddisfare le richieste di un pubblico feticista, alimentate dai mass media. 

Per converso gli itinerari del vero «Gran tour» – che non prevedevano solo visite ai musei più famosi delle grandi capitali del mondo – sono ormai dimenticati, nonostante ancora, a ricordarceli, siano sopravvissuti gli scritti, le lettere e i quadri dei grandi artisti-studiosi-viaggiatori (in una parola “umanisti”). 

Finalmente cominciano ad affacciarsi sulla rete le prime – anche se non sempre degne e adeguate – “visite virtuali” ai grandi musei di tutto il mondo, mentre i luoghi che contengono solo poche opere, per di più ignorate dai libri e dai discorsi dei soliti mercanti d’arte in costume da studiosi, sono per lo più ignorati, non tutelati e non visitati, senza più personale per custodirli, chiusi se non abbandonati all’incuria e al vandalismo. 

Inutile approfondire qui il discorso intorno a ciò che potrebbe portare lavoro nel nostro paese, inteso come il più grande e importante museo a cielo aperto del mondo intero: il nostro patrimonio artistico è ancora considerato come una cosa di cui fregiarsi, ma non da curare, dal momento che non non dà da mangiare a sufficienza … ai voraci opportunisti (gli “economisti” della cultura) sfruttatori di ogni fenomeno culturale per farne un loro successo economico. 

L’arte del passato non fa arricchire chi può controllare assai meglio la pseudoarte del presente; di conseguenza, in un paese che sembra ormai condannato al peggior degrado culturale di sempre, la miglior opportunità per tornare a crescere è quasi del tutto ignorata, tranne che per lo «sfruttamento turistico», che richiede affascinanti rovine come sfondi romantici per vacanze da sogno, per spot commerciali e per imperdibili visite al balcone – finto – di Giulietta e Romeo. 

La cosa incredibile è che non occorrerebbero grandi investimenti per rendere il nostro paese una «rete» di beni culturali correlati tra loro e con tanti altri, meno famosi ma non di meno preziosi, sparsi nel mondo intero. 

Non serve spostare e ammucchiare le opere per attrarre visitatori alla ricerca della quantità ma senza strumenti per apprezzare la qualità. Occorre iniziare a «correlarle» tra loro, facendo di ogni paese, città d’arte, museo, opera, un «nodo» di una «rete» che almeno ricostruisca, in forma di «labirinto della conoscenza artistica», gli «itinerari dei gran tour» tracciati dagli artisti stessi in veste di viaggiatori. Da queste premesse si potrebbe continuare poi più ambiziosamente con l’esplicitare le «connessioni non immediatamente percepibili» tra quei tesori in gran parte (inutilmente) dissepolti e raccolti per renderli invano disponibili (cioè in gran parte inaccessibili a causa di insufficienti richieste e conseguenti risorse) a chi non sa apprezzarli. 

Ma si tratta evidentemente di un gatto che si morde la coda, perché se non si investe nella valorizzazione «iper-informativa» di ciascuna delle nostre risorse artistiche (non stiamo parlando del loro sfruttamento economico), nessuno, che non sia già interessato e preparato, avrà voglia di visitare altro che quelle sole «usate» dai massmedia e dalla pubblicità come “icone del made in Italy”. E inoltre, se non si investe nella preparazione del pubblico, nessuno sarà più in grado di apprezzare neppure quelle più “famose” al di là di una rapida visita turistica, sostituibile, a quel livello superficiale e sbrigativo, con la visione di una cartolina digitale su internet.

A volte abbiamo apprezzato le iniziative di zelanti assessori e curatori che, all’interno della propria città o del proprio museo, hanno tentato di creare degli itinerari (“barocchi”, ad esempio) o di consorziare le istituzioni culturali per creare “biglietti cumulativi” per promuovere itinerari tra le risorse artistiche del territorio e dei monumenti di loro pertinenza; ma questo sforzo andrebbe esteso e portato a livello più alto, tessendo una «rete delle risorse artistiche» di tutto il nostro paese, «e non di meno degli strumenti» per poterle meglio apprezzare. 

Anche in questo caso l’interazione tra il digitale – trasportabile ormai su un dispositivo mobile, ma ancora affidato a risorse inadeguate come quelle di Wikipedia – e i tesori d’arte, visitabili fisicamente o virtualmente, andrebbe potenziata, anziché considerata come una pericolosa ed evitabile alternativa. L’importanza di tale interazione dovrebbe essere compresa soprattutto da coloro che vivono del «possesso» di «originali» preziosi; molti di loro, infatti, temono che, facendoli conoscere via internet, perderebbero il potere che gli deriva dall’essere i soli a possedere i «supporti» a cui i capolavori artistici sono «analogicamente» legati (e perciò destinati a perdersi con il «deperimento dei supporti» stessi). 

Siamo in imbarazzo nel confessarvi quanto la nostra attività sia stata ostacolata, tra gli altri, da ottusi direttori custodi di preziose risorse, i quali neppure si preoccupavano di digitalizzarle a scopo «conservativo» (noi diremmo per «conservare le informazioni», dal momento che i supporti sono inevitabilmente deperibili); anzi, giustificavano la loro ottusità con la “comprensibile paura della perdita dell’esclusiva” in seguito a possibili appropriazioni indebite rese più facili  dal digitale. 

Sarebbe da approfondire, ma non qui, quanto la paura della pirateria freni la crescita del digitale e ostacoli l’educational, favorendo i fautori della conservazione dell’analogico, baluardo del protezionismo, a scapito della distribuzione digitale «senza frontiere».

Potremmo raccontarvi di musei, università, biblioteche, non solo italiane, che sono riuscite ad accaparrarsi (in copia unica da non riprodurre) preziosi archivi di grandi autori dai loro eredi, per attrarre finanziamenti pubblici e per offrirli solo alla visione del loro pubblico locale di visitatori e iscritti (ovviamente perquisiti per accertare che siano privi di taccuini, registratori, smartphone, o altri dispositivi riproduttivi, eccetto la traditrice memoria causa di tante false citazioni). 

Potremmo raccontarvi delle difficoltà che abbiamo noi stessi ad essere riconosciuti come un Istituto depositario di archivi di interesse per l’umanità, dopo che, per nostra scelta etica, abbiamo lasciato ai parenti e agli aventi diritto i documenti originali, che pure ci offrivano, e ci siamo limitati a raccogliere e correlare solo le «copie digitali» di quelli, creando, relativamente agli autori di cui ci occupiamo, un archivio unico al mondo per completezza e per correlazioni interne ed esterne, ma considerato “di poco valore” persino da parte di coloro che si vantano invece di conservare nei loro scrigni – accanto all’arca perduta – un (solo) “pezzo originale”, un raro reperto di un grande autore, destinato, senza alcuna correlazione, a rimanere oscuro al loro pubblico e a loro stessi.

Ma ci interessa rimarcare qui il fatto che raramente chi possiede oggetti di valore artistico, non solo nel nostro paese, si preoccupa di consentirne l’accesso pubblico online; eppure basterebbe che creasse una pagina web apposita – con un «indirizzo assoluto» e con «ancore» per ogni sua «articolazione» – in modo che «dall’esterno» si possano creare «correlazioni» a partire da ogni studio o sistema informativo/formativo realizzato o realizzabile che consideri tali oggetti da una diversa prospettiva e all’interno di un diverso discorso.

In questo modo non solo noi – che ci adoperiamo per creare veri e propri manuali per agevolare l’apprendimento delle straordinarie competenze racchiuse nelle opere di quegli autori – ma anche studenti, docenti e studiosi autori di saggi, studi, tesi e lezioni potrebbero «linkare» anziché «copiare» le immagini, i testi letterari e i video postati da chi ne possiede i diritti.

Grazie alle tecnologie elettroniche oggi è possibile, per chi voglia «esporre» i propri «oggetti», offrire preziose informazioni anche attraverso «rappresentazioni» che non possono darsi con la semplice e sola esposizione degli «originali». Oggi si parla tanto di “realtà aumentata” come se fosse una “nuova tecnologia” per “l’arricchimento della percezione sensoriale umana mediante informazioni, in genere manipolate e convogliate elettronicamente, che non sarebbero percepibili con i cinque sensi” (citazione tratta da Wikipedia), e a tale scopo si offrono, oltre ai «dispositvi» mobili correnti, anche nuove scatole magiche come gli occhiali e i visori speciali per “visualizzare l’invisibile”. 

Ma che cos’è questo «invisibile» se non quello che si preoccupa di mostrare ad esempio il Rijksmuseum di Amsterdam offrendo sulla rete, esemplificativamente, una riproduzione – relativa a un quadro di Rembrandt in suo possesso – ad una risoluzione tale (“ultra alta definizione”) da consentire al fruitore online di conoscere il quadro meglio che al museo? Questa soluzione agevola chi come noi può essere interessato a studiare e correlare quel capolavoro all’interno di un sistema di studio senza doverne caricare inadeguati succedanei e senza appesantire (qualora se ne possiedano i diritti d’uso) il sistema di studio stesso. 

(https://hyper-resolution.org/view.html?pointer=0.416,0.000&r=0.0000,0.1250,1.0000,0.7692&i=Rijksmuseum/SK-C-5/SK-C-5_VIS_20-um_2019-12-21). 

Tra qualche tempo questa novità sarà superata da altre (per la tecnologia si può essere ragionevolmente «evoluzionisti»); ma chi detiene fisicamente capolavori artistici, e ne possiede diritti d’uso e distribuzione, e dispone di spazi idonei per esporli offline e online, dovrà comunque continuare a porsi interrogativi riguardo cosa e come esporre, ad esempio visualizzando documenti relativi al progetto, agli studi autoriali, alla «genesi» del capolavoro, alla sua realizzazione, mostrandolo in modi preclusi al visitatore in mezzo a tanti altri, in una sala di un museo affollata, ad una certa distanza e dietro un vetro protettivo.

Per quanto riguarda le informazioni automaticamente correlabili (quelle che anche un computer dotato di A.I. può ricercare e collegare) e quelle che invece richiedono studi approfonditi per cogliere le «connessioni non immediatamente percepibili», non serve che chiunque possieda uno o più preziosi oggetti artistici si adoperi anche, lui stesso, per ricercarle ed esporle accanto ai suoi reperti. 

Uno dei vantaggi di disporre di una collezione museale online è quello di consentire a studiosi come noi di creare ad esempio una mostra virtuale (così come lezioni o manuali online) – e magari anche in collaborazione con e promossa da i «detentori dei diritti relativi agli oggetti di studio» – correlando indirettamente gli oggetti di quella collezione tra loro e con altri attraverso un labirinto cognitivo creato da noi stessi (nel nostro sito) per favorire «diversi viaggi da diverse prospettive attraverso gli oggetti correlati».

Tuttavia potrebbe essere proprio tra i «compiti istituzionali» di un museo, di una biblioteca o di un teatro favorire la ricerca e la diffusione di quelle informazioni che non possono essere ricavate automaticamente ma che sono ricavabili solo attraverso lo «studio analitico e sistematico delle correlazioni implicite interne ed esterne agli oggetti della propria collezione». Non solo  potrebbe far parte dei suoi compiti, ma potrebbe anche qualificarlo come un laboratorio di studi e un’alta scuola di formazione (anche se l’«educational» è spesso trattato solo come una voce di bilancio con cui coprire i passivi delle istituzioni culturali), come ente polifunzionale  attento anche a promuovere e a presentare (magari online e fruibili anche attraverso un dispositivo mobile) gli strumenti più adeguati (come i nostri sistemi di fruizione e studio reticolare) per preparare il pubblico a visitare la propria collezione (e le eventuali esposizioni fisiche e online temporanee), e a valutare le proprie produzioni.

I risultati di quegli studi «esterni ma correlabili a» gli oggetti di studio posseduti dall’Istituzione – ad esempio i sistemi di studio reticolari che noi elaboriamo in rapporto a capolavori dell’arte narrativa di ogni tempo e luogo sparsi nel mondo intero – possono finalmente essere fruiti non solo offline «accanto a» gli «archivi delle opere degli autori prese in esame» (come facevamo tempo addietro installando i nostri Sistemi in postazioni collocate nei luoghi interessati a valorizzare il loro patrimonio artistico e a formare il loro pubblico), ma anche online, dai dispositivi degli stessi utenti che possono godere della interazione tra il nostro lavoro e quello degli enti preposti a conservare e tutelare gli oggetti di studio; possono esplorare online le correlazioni tra i nostri studi reticolari e gli oggetti da cui sono ricavati e a cui sono correlati proprio per valorizzarli e per dare al pubblico un’esperienza cognitiva di studio analitico (anche fuori dello spazio espositivo) oltre che di fruizione, per soddisfare le domande che ogni capolavoro artistico dovrebbe porre più esplicitamente al suo fruitore, per indurlo a cercare – anche altrove – le molteplici risposte. 

Quand’anche chi possieda opere d’arte non senta la responsabilità di trattarle come patrimonio dell’umanità, e le consideri invece al pari di un’attrazione da luna park, solo per far soldi sfruttando la curiosità e il fascino che il pubblico prova per le cose che valgono molto, che sono uniche e difficilmente accessibili, rimane aperto il problema di soddisfare a costo quasi zero il diritto alla conoscenza, allo studio, all’informazione, all’educazione, e di agevolare chi, come noi, si adopera senza profitto per formare il pubblico e i nuovi autori e studiosi; chi, come noi, ha bisogno di avere accesso non una tantum al caveau dove sono riposte le preziose risorse o alla sala espositiva in cui sono esibite, ma a una serie di indirizzi online assoluti e non temporanei, per poter puntare a quelle opere ogni volta che dall’interno dei sistemi di studio che elaboriamo, prendiamo in esame, da una nuova prospettiva. una parte e un aspetto di esse.

Da oltre venti anni combattiamo contro coloro che ancora oggi insistono a creare pseudo-sussidi informativi e formativi che contengono riassunti e succedanei di opere d’arte, e continuano a rivendere il «pacco multimediale» costituito dalle (riproduzioni inadeguate delle) opere d’arte insieme ai loro apparati critici fatti di luoghi comuni e notizie ottenibili ovunque. 

I nostri sistemi si avvalgono della possibilità, offerta dal digitale già dati remoti tempi del digitale offline su disco – di correlare dall’esterno i nostri studi agli oggetti presi in esame, di cui non possediamo e non vogliamo acquisire i diritti. Ad ognuno il suo. I nostri sistemi non contengono gli oggetti di studio ma gli «indirizzi» degli oggetti insieme ai «criteri di correlazione» e alle argomentazioni scientifiche che li correlano in base a tali criteri. I nostri sistemi presuppongono un censimento di dati-indirizzi sparsi ovunque nel mondo per dare a noi e ai nostri utenti la possibilità di viaggiare virtualmente tra le collezioni museali e le esposizioni, fisse e permanenti, di tutto il mondo, anche senza viaggiare fisicamente dall’una all’altra. 

Per convincere i nostri utenti ad interessarsi al nostro lavoro noi non abbiamo bisogno di possedere gli oggetti di cui ci occupiamo, ma di mostrarli, farli leggere, ascoltare, cioè fruire dall’interno dei nostri Sistemi; il nostro lavoro è infatti da intendere come un complemento di quello svolto dai grandi artisti per realizzare i loro capolavori, e di quello svolto dalle Istituzioni che si preoccupano di tutelare quelle opere e renderle fruibili per il mondo intero. 

Noi elaboriamo e forniamo gli strumenti più adeguati per apprezzarle e per imparare da esse come crearne di nuove, perché noi non ci sostituiamo agli autori, come invece fanno certi critici (autori incapaci e per questo frustrati) che costruiscono «intorno all’opera» – senza riuscire a entrarci dentro – un apparato «sovra-interpretativo», dietrologico, che secondo loro spiegherebbe cose che neppure l’autore sapeva di star facendo. Noi invece consentiamo ai nostri utenti di tornare virtualmente a bottega da coloro che hanno creato quelle opere, per imparare a ragionare come quegli autori, per comprendere dall’interno il senso di ogni loro operazione, di ogni soluzione da loro elaborata in base a principi universali di composizione e narrazione condivisi con altri autori, maestri, allievi, e interlocutori a distanza.

Un’altra questione che ci sta a cuore sollevare qui, parlando di mostre, nasce dal chiederci cosa resti di un’esposizione temporanea, e/o di un catalogo quando è “esaurito”, cioè se non è stato distribuito anche in «inesauribile versione digitale». Ci chiediamo infatti perché mai quella mostra e il suo catalogo, quando sono così pregevoli, non entrino a far parte di una «rete di studi espositivi esemplari» che consenta anche agli utenti che nasceranno tra dieci anni di poter viaggiare tra mostre e collezioni non più o non completamente disponibili fisicamente intorno a lui.

Quante volte siamo rimasti attoniti e addolorati perché certi allestimenti, certi complessi e faticosi lavori di studiosi sono finiti dispersi e cancellati dopo che l’esposizione era stata smontata. Noi stessi abbiamo tentato invano di rendere permanente e implementabile la mostra che curammo – allora con pochissime risorse economiche, ma con tanta passione – concernente i rapporti tra Roberto Rossellini e i suoi maestri umanisti. Noi stessi pensavamo che un Comune come quello di Roma, anche solo per ragioni biografiche, avrebbe accolto il nostro progetto come risorsa permanente della Capitale, mentre noi, purtroppo, non siamo riusciti neppure a mantenere le scenografie e le riproduzioni, per una ovviabile mancanza di una sede fisica e dei pochi fondi necesasari per il mantenimento. 

È lo stesso problema che riguarda gli allestimenti scenici dei grandi spettacoli prodotti dai teatri di prosa e musicali, che vengono dismessi per far posto a nuove e spesso più inadeguate messe in scena, tanto vergognose e destinate all’oblio quanto necessarie per dare aiuti economici a pseudoartisti protetti dei potenti, che non meriterebbero di accostare il loro nome a quello degli autori che mettono in scena. È a dir poco indicativo che, ad esempio, un grande regista come Piero Faggioni mantenga a sue spese quel che resta del grande allestimento scenico del suo Don Chisciotte (da Massenet) mentre i teatri e i loro direttori dalla memoria corta semplicemente lo ignorano. 

A frenare il nostro lavoro per far conoscere le opere dei grandi autori e i progetti scenici dei registi che hanno saputo meglio rappresentarle è ancora quella stupida tendenza, ammantata di idee decadenti, che la fine di un allestimento di una mostra o di uno spettacolo sia anche la fine dello spettacolo stesso – perché considerato per sua natura necessariamente “effimero” – e che di conseguenza rimangano solo le memorie di qualche visitatore/spettatore magari armato di videocamera abusiva, che alimentano l’attività benemerita di tanti collezionisti feticisti in cerca di sacre reliquie.

Questa tendenza culturale suicida è ormai superabile anche tecnicamente sfruttando le ormai innumerevoli possibilità di documentare l’allestimento scenico più adeguatamente. Un tempo la registrazione di uno spettacolo si faceva solo di qualità bassa e a camera fissa in funzione delle eventuali «riprese» dello spettacolo stesso, cioè per facilitare il lavoro degli scenografi, coreografi, e registi, quando lo avrebbero riallestito a distanza di spazio/tempo. Ora si può anche far rivivere lo spettacolo in una nuova forma digitale multimediale, almeno per chi voglia (e debba, per la propria formazione professionale) comprendere, studiare e apprezzare il progetto dell’autore e dei suoi interpreti anche in mancanza di un riallestimento in altro tempo e in altro luogo da parte di politici della cultura avveduti, che non pensino alle mostre e agli spettacoli solo come occasioni per far lavorare i loro immeritevoli protetti.

Perché non si rimette in scena uno spettacolo curato da Giorgio Strehler o da Jean-Pierre Ponnelle o da Luchino Visconti, anziché mettere in scena solo spettacoli che dissacrano i classici invece di onorarli con degne messe in scena? Anzitutto – osiamo dire – per ragioni nepotistiche, poi per ragioni economiche, ideologiche, e oggi persino per ragioni moralistiche (le ragioni iconoclaste della “cancel culture” e del “politicamente corretto”). 

Salta agli occhi che non si riportano sulla scena quei maestri perché i loro allestimenti non farebbero guadagnare i nuovi metteur en scene e i loro mecenati. Ma ci sono anche delle ragioni tecniche. Per comprenderle basta domandarsi come mai si può ancora rimettere in scena l’ Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni, e non il Galileo di Brecht nelle interpretazioni originali e al contempo rispettose di Giorgio Strehler. La risposta è semplice: del primo esiste un video, e del secondo no. 

Perché si può rimettere in scena la “Cenerentola” (da Rossini) di Jean-Pierre Ponnelle e non la sua tetralogia wagneriana? Perché Ponnelle, cosciente del lavoro incedibile da lui compiuto, del suo lungo e approfondito studio preparatorio e del progetto eccezionale da lui elaborato, proprio come Eduardo De Filippo, si era preoccupato lui stesso di lasciarci una rappresentazione adeguata di alcuni suoi spettacoli (quelli per cui qualcuno era disposto a finanziare una versione di «film-opera»), con una regia audiovisiva curata da lui stesso che consentisse tra l’altro di facilitare il lavoro di chi volesse riportarli sulla scena del proprio teatro, non solo per rendere omaggio a Ponnelle ma anche e soprattutto per far apprezzare al pubblico i capolavori operistici degli autori da lui messi in scena (Rossini, Mozart, Puccini, …); capolavori messi in scena come difficilmente oggi potrebbe vedere e comprendere a causa di troppe pessime sbrigative e dimenticabili nuove messe in scena. 

Ci dispiace dover ricordare che la RAI, che ha lasciato deteriorare le registrazioni video delle regie di Eduardo prima di riversarle, ha anche cancellato una delle sue preziosissime rappresentazioni audiovisive; la qual cosa ha invogliato tanti registi a cimentarsi proprio in quella messa in scena, potendo evitare l’imbarazzante confronto con la messa in scena del maestro stesso.

È chiaro che qualunque allestimento di mostra o spettacolo, per quanto ben fatto, non potrà mai sostituire la conoscenza lunga e approfondita dell’opera di un autore e dei suoi correlati. Per quello occorre studio e più tempo. Per questa ragione abbiamo creato i nostri sistemi di studio. Ma una mostra o un allestimento scenico possono costituire un accesso, un filo da cogliere per favorire l’ingresso di un potenziale utente nella complessa opera di grande maestro, per fargli venire la voglia di faticare per esplorarla, e soprattutto per prepararsi ad esplorarla. 

Per concludere questo punto ci domandiamo perché non ci sia un museo virtuale degli allestimenti scenici dei grandi interpreti che consenta da un lato di poter studiare meglio, attraverso di essi, le opere da loro messe in scena, ma anche di poter studiare, a confronto, le soluzioni interpretative dei grandi metteur en scene nell’affrontare lo stesso progetto autoriale e portarlo sulla scena.

Non era poi così inverosimile l’idea provocatoria, lanciata da Umberto Eco, di creare allestimenti e musei con un solo pezzo ma con un apparato critico immenso. 

Forse in un tempo non troppo lontano potremo finalmente sfruttare l’opportunità di interagire online con intere collezioni museali accessibili con indirizzi assoluti, e forse nel frattempo potremo finalmente aver raggiunto quella condizione di sufficienza e di adeguatezza di documenti di archivio online (oggi ancora sostituiti da loro inadeguate preview sfruttando la rete come vetrina pubblicitaria), indispensabile per poter avviare un lavoro «sistematico» di studio interdisciplinare, poliprospettico, multiplanare, cioè reticolare, riguardo a tutte le opere dei grandi artisti di cui da anni raccogliamo risorse nei nostri archivi digitali. Potremo finalmente occuparci non più soltanto di quelle opere su cui ci siamo concentrati in questi anni grazie alla quantità di risorse ad esse relative che abbiamo avuto la «fortuna» di avere a disposizione, godendo della fiducia di qualche avente diritto o meritandoci l’investimento di tempo e di denaro da parte dei nostri sostenitori e collaboratori. 

Ma non dobbiamo dimenticare che per accedere alle risorse relative ai capolavori artistici, per poter fare con esse mostre lezioni e manuali ma anche spettacoli e pubblicazioni online, pur sempre a scopo Educational no profit, occorre risolvere a livello istituzionale e politico le complicazioni sempre incombenti relative ai loro diritti d’uso. 

Vi è per così dire una disattenzione assai diffusa per i diritti educational non profit, quei diritti allo studio, alla conoscenza e all’educazione che pur presenti nelle leggi di quasi ogni paese, vengono sistematicamente ignorate trattando chiunque parli dei tesori che interessano le società che se ne occupano a livello commerciale vengono ignorati e calpestati, trattando gli studiosi e gli educatori allo stesso rango dei pirati che fregandosene delle leggi e invocando loro stessi paradossalmente una presunta libertà di informazione riempiono canali come YouTube di copie pirata che appaiono accanto a titoli regolarmente in commercio o fuori dai diritti.

Quei diritti ignorati ad esempio da chi ha impostato i motori di ricerca per catturare i pirati (che non sono in grado di distinguere perché assumono come presupposto che chi parla di un capolavoro lo fa solo per far soldi come tutti) ci permetterebbero di realizzare una lezione, un sistema di studio, una mostra relativi all’opera di un grande autore senza dover acquisire i diritti di distribuzione commerciale di ogni immagine o sequenza noi prendiamo in esame anche se essa è mostrata per studio a bassa risoluzione e isolata dal titolo come sequenza e anche se la decisione di mostrarne in alcuni casi l’estratto non nasce dalla nostra volontà di duplicare gli originali ma di non poter linkare gli originali in qualche luogo online e in un formato linkabile.

Questo dovrebbe apparirvi ancor più paradossale se pensate che  noi con questa attività non guadagniamo nulla (sappiamo che è difficile da credere ma a volte la realtà supera l’immaginazione e i pregiudizi) ma contribuiamo piuttosto a far guadagnare gli aventi diritto promuovendo, dall’interno dei nostri progetti, la conoscenza delle opere di cui detengono i diritti di distribuzione commerciale, e addirittura formando i loro potenziali utenti ad apprezzarle. 

Questi diritti sono quotidianamente calpestati e noi stessi abbiamo molte difficoltà a trovare e a trattare opere artistiche di cui occuparci senza essere scambiati noi stessi per speculatori ce pirati che vogliono appropriarsene indebitamente. 

Altrove certamente tratteremo meglio il problema più ampio dei diritti per uso educational, che investe tra l’altro anche la presentazione esposizione, proiezione delle opere d’arte in sedi educative, e riguarda necessariamente anche le nostre mostre.

È infatti proprio dalla possibilità di accedere, in forma interamente digitale online, sia alle nostre risorse che a quelle rese disponibili da autori e distributori, e dalla correlabilità di tutte queste risorse con in nostri sistemi di studio reticolari, che nascono anche i nostri progetti di mostre virtuali e di spettacoli virtuali. 

Per concludere questo discorso introduttivo intorno alle questioni metodologiche che noi ci poniamo nell’affrontare ogni progetto espositivo, vogliamo riassumere alcune idee che troverete applicate in tutti i nostri progetti.

I nostri progetti espositivi vanno intesi anzitutto come nuovi modi per soddisfare gli interessi di chi vuole mettere alla prova, su capolavori artistici complessi, quanto ha appreso riguardo la narrazione artistica dopo aver seguito le nostre lezioni e studiato con i nostri sistemi. Ma vanno intesi anche come stimoli per far nascere nuovi interessi in chi si avvicina per la prima volta con curiosità ad opere che non conosce ancora o che ancora non riesca ad apprezzare, perché dalla scuola e dai mass media ne è stato tenuto lontano, sia facendogliele ignorare sia facendogliele vedere con paraocchi ideologici, con letture riduttive sbrigative e divulgative che gliele hanno fatte rapidamente dimenticare come fenomeni superati e di scarso interesse per la contemporaneità. 

Le nostre mostre e i nostri progetti di mostre sono state per noi occasioni per far conoscere autori e interpreti che si sono sfidati a distanza di spazio e tempo a creare variazioni su una stessa materia narrativa.

Ma il nostro principale interesse per le mostre è usarle per presentare quello che normalmente non si vede in mostra: la progettazione delle opere. Perciò anche le mostre per noi sono mezzi per realizzare progetti meta- e iper- narrativi, per parlare di come si crea un’opera, di come la si «interpreta» (in senso progettuale) per farne una messa in scena, di come la si studia prima progettualmente e poi analiticamente. Così ogni mostra diventa l’occasione per far conoscere l’immenso lavoro progettuale degli autori e il nondimeno complesso lavoro di chi, come noi, le studia per trarne i preziosi impliciti insegnamenti, per far emergere le innumerevoli correlazioni interne ed esterne ad esse.

Nelle nostre esposizioni mostriamo ciò che di solito non si racconta negli spettacoli e nelle pubblicazioni: i progetti degli autori, i meccanismi narrativi, le connessioni elaborative che essi hanno istituito nel creare nuovi testi.

Per noi ogni mostra è stata ed è un’opportunità per creare e rappresentare labirinti narrativi percorribili da più prospettive e a più livelli in uno spazio polidimensionale fisico o virtuale.

La mostra virtuale per noi è un’espansione, non la sostituzione di una mostra fisica: è un modo per far continuare e per moltiplicare i viaggi conoscitivi del visitatore anche oltre il tempo della visita fisica e in spazi più ampi di quelli allestiti per l’esposizione fisica, anche correlando la mostra ad altre mostre.

Le nostre mostre sono state pensate con pochi oggetti e molti modi per osservarli, esplicitando le prospettive di studio e i livelli analitici secondo quel metodo detto “analitico parcellare” che abbiamo appreso dal nostro maestro e mentore Alberto Cirese.

Nelle nostre mostre mettiamo a confronto numerosi grandi autori, interpreti e studiosi intorno agli stessi oggetti di studio; in tal modo possiamo esplicitare e studiare i «modi» con cui si possono trattare i medesimi oggetti di studio. Facendo dialogare diversi autori tra loro intorno a uno stesso tema metodologico esplicitiamo infatti i loro modi di pensare, di ragionare, intorno alla stessa questione, e consentiamo ai nostri utenti di apprendere quegli insegnamenti metodologici che i maestri si tramandano come in una staffetta dall’uno all’altro.

Il museo ideale per noi è quello che da anni abbiamo proposto di creare per rappresentare le idee, le ricerche, i progetti e le botteghe della  tradizione umanistica, sotto la guida virtuale di umanisti quasi nostri contemporanei, come Roberto Rossellini, che hanno ispirato il nostro ambizioso progetto; non uno spazio in cui si dovrebbero raccogliere i reperti già disponibili presso siti e musei, ma come un luogo virtuale dove si possano esplorare le correlazioni tra i documenti presenti in siti e musei esterni ad esso; ma anche un luogo fisico – una nuova bottega umanistica al tempo del digitale – dove si possa lavorare a creare reticoli iper-informativi, da dove si possano ricercare documenti e correlazioni tra di essi grazie al lavoro sul campo di tanti ricercatori e studiosi autonomamente finanziati dalle istituzioni del loro paese; e infine una scuola dove si possa insegnare questo nostro mestiere che abbiamo impiegato oltre quaranta anni per imparare a svolgerlo bene e per tramandarlo alle nuove generazioni di umanisti.