L’interesse che l’Istituto nutre per le questioni di carattere metodologico è dovuto a diverse ragioni: da un lato l’Istituto «estrae metodologia» da capolavori «artistici», e lo fa con metodo «scientifico»; da un altro lato l’Istituto «insegna metodologia» facendone l’oggetto principale di una didattica basata sull’acquisizione di «competenze» oltre che di «conoscenze»; una didattica che, dallo studio di oggetti «particolari» e concreti consente di ricavare principi «generali» di narrazione e composizione degli oggetti stessi.
All’interno di una «nuova didattica interdisciplinare delle arti narrative» l’istituto pone al centro il problema metodologico facendone insieme l’oggetto e lo strumento di studio di cui ogni docente di qualunque disciplina dovrebbe occuparsi facendo ricavare (esplicitare applicare e verificare) lezioni metodologiche ai suoi studenti da ogni esperienza.
Da troppo tempo la scuola è malata di «contenutismo ideologico»; di conseguenza considera l’apprendimento un problema che concerne solo «quali contenuti trasmettere» e «come farlo nel modo più rapido e indolore possibile».
Nella scuola che vogliamo contribuire a creare, la «metodologia» non è la soluzione pedagogica con cui i docenti riescono più o meno efficacemente e rapidamente a «inculcare nozioni e verificare se sono state apprese» dai loro studenti. Il metodo che vogliamo introdurre come materia trasversale è quello scientifico, che come tale dovrebbe riguardare ogni esperienza analitica o progettuale che gli studenti compiono, guidati da insegnanti maestri di metodo che dovrebbero preoccuparsi di stimolare e allenare le loro capacità elaborative in ogni campo e con ogni oggetto di cui si occupino.
Lo studio scolastico invece non sembra mai riguardare come si fa ricerca, come si scrive, come si compone, come si narra, come si scopre e come si inventa. Queste cose sono lasciate alla libera e spontanea «creatività» degli allievi, e perciò ai peggiori automatismi.
L’approccio ai capolavori artistici che costituiscono il nostro bagaglio culturale più prezioso, il nostro patrimonio di conoscenze più elevate, la nostra cultura più raffinata, continua ad essere solo di tipo storico, sociologico e psicologico; così vengono incentivate l’erudizione, l’opinionismo e la dietrologia. Il confronto tra i testi non avviene che per questioni superficiali, tecniche, sociologiche, storiche. L’idea dominante è che la cultura si studia solo:
– con la storia che mira a contestualizzare i testi e a interpretarli sempre (anche quando sono capolavori artistici di valore universale) come fenomeni rappresentativi del proprio tempo;
– con la sociologia che tenta di capire come mai un testo è stato accolto, apprezzato o censurato dal pubblico e dalla critica;
– con la psicologia che crede di poter indagare attraverso i testi le turbe psichiche che agitano l’animo degli autori e di spiegare con esse la complessità dei testi.
Il risultato è che nella scuola persino la produzione artistica è strumentalizzata per abbellire discorsi ideologici e pedagogici, o inserita all’interno di presentazioni multimediali come contributo per trattare un tema generico secondo le diverse discipline scolastiche (ad esempio: la «luna» dal punto di vista letterario tema prediletto di tanti poeti, la luna dal punto di vista storico oggetto delle conquiste spaziali e della competizione USA/URSS, la luna oggetto di studio geografico e astrofisico e magari anche chimico considerando la sua materia).
Gli stessi «temi» che vengono identificati per pretestuose attività «interdisciplinari» non aiutano ad entrare nel merito della costruzione dei testi, ma anzi li omologano per categorie superficiali e stereotipate come i «generi», con il risultato che un capolavoro artistico è equiparato a un prodotto della cultura di massa televisiva purché parli di mafia, di terrorismo, di bullismo, di amore adolescenziale, di malati terminali, di migranti, di femminismo etc. I testi vengono «usati» e non studiati; sono considerati solo come «pretesti» per sostenere finti dibattiti precostituiti e vere lezioni ideologiche, a tesi, che l’allievo deve imparare a recitare quando occorre, per farsi riconoscere come un obbediente trasmettitore di senso comune.
Il menu del palinsesto culturale scolastico (proprio come quello televisivo) offre non solo l’esplicita «lezione ideologica» di presunto e indiscutibile impegno civile, sempre utili nella vita quando si tratta di ottenere benevolenze politiche; offre anche la «divulgazione», che promette «l’illusione della conoscenza» senza sforzo, piuttosto che l’insostenibile «consapevolezza della propria ignoranza» e la necessaria fatica per apprendere e crescere. E infine, come dessert, il menu offre la «dietrologia interpretativa», soluzione apparentemente più sofisticata perché consente a qualunque «creativo» una via d’uscita per camuffare le proprie psicosi, la propria ignoranza e la propria superficialità, autorizzandolo a «girare intorno» al testo, a ricercare «dietro» – piuttosto che dentro – significati ovviamente «segreti», che puntualmente emergono, come in una seduta spiritica, quali proiezioni delle sue ossessioni, rendendo così i testi utili solo a scatenare le associazioni psicologiche di interesse personale e a scambiarle per «interpretazioni originali» dei testi stessi. Dovrebbe apparire evidente che le associazioni psicologiche, arbitrarie, soggettive, che il soggetto produce osservando un testo e trattandolo come una «macchia di Rorschach», non possono aiutare a comprendere il testo ma semmai la mente di chi lo «usa», come «pretesto», per parlare dei propri problemi. Invece sono troppo spesso l’ingrediente più apprezzato di ciò che oggi viene prodotto e offerto come «strumento di studio» nelle istituzioni accademiche (tra lo studioso «impegnato» sempre pronto a dimostrare le proprie tesi politiche, e lo studioso ossessionato dalle proprie psicosi e sempre pronto ad applicare ad ogni oggetto le proprie pretestuose manie interpretative: cos’è mai peggio?).
Ma a quale titolo un «critico», o un docente di «critica», chiede ai propri lettori, o studenti, di ascoltarlo, leggerlo e magari anche pagarlo per le sue sorprendenti «associazioni»? Sarebbe più giusto che le rivolgesse al proprio psicoanalista e che accettasse di dover pagare lui una parcella, per essere ascoltato e analizzato, piuttosto che pretendere che i suoi lettori/ascoltatori la paghino a lui, anche solo con la disponibilità a sopportarlo come esperto della materia (quale materia? La sua mente disturbata?).
Si potrebbe pensare che questo modo perverso di insegnare sia riservato solo alle materie umanistiche, considerate troppo spesso frutto di estro e di impulsi irrazionali non spiegabili con la scienza.
Paradossalmente persino le materie scientifiche sono mal trattate, come un insieme di assiomi, di conoscenze da memorizzare; e solo in misura minore sono considerate come un insieme di procedimenti metodologici da acquisire. I manuali stessi sono concepiti come un cumulo di giudizi da acquisire e da ripetere per ottenere un voto e un diploma. Perfino la scienza non è trattata come una metodologia per affrontare il reale, ma come storia di scoperte e di applicazioni in campo matematico, fisico, biologico, chimico etc.
D’altro canto la divisione tra «materie umanistiche» e «materie scientifiche» è ancora una barriera insormontabile, anche a parole – e per assurdo – tutto è diventato scienza (e dunque nulla è scienza): “scienze umanistiche”, “scienze dello sport”, “scienze dell’alimentazione”, “scienze dell’educazione”, etc. Quello che invece non è accaduto – e che potrebbe non accadere mai – è che anche lo «studio» della letteratura, delle arti visive, della musica, e oggi persino del teatro e del cinema, possa divenire occasione per acquisire, sperimentare e apprendere «metodologie» scientifiche per analizzare e comporre i testi.
La maggior parte dei «manuali» non aiuta lo studente ad acquisire le competenze dell’autore – o degli autori – degli studi che essi contengono, anzitutto perché contengono solo studi e non, anche, riflessioni metodologiche sul modo in cui sono condotti gli studi stessi; inoltre, troppo spesso, gli stessi autori degli studi non sono in grado di distinguere i «giudizi» dai «criteri di giudizio» che assumono inconsapevolmente; non conoscono le «teorie» implicite – quando non sono luoghi comuni o ideologie – che adottano nel formulare giudizi; e pensano che il loro compito sia solo quello di fornire i giudizi da loro stessi ritenuti più validi di altri, piuttosto che insegnare come giungere a formularli.
Così, paradossalmente, è assai improbabile che uno studente che utilizzi un manuale di «storia» dell’arte o di letteratura possa ricavare – tra le informazioni fornitegli oltre quelle di carattere storico – alcuni «criteri» per poter tentare lui stesso di analizzare una nuova opera, applicando quanto appreso in una lezione su un particolare testo. Potrebbe infatti scoprire che spesso anche nei manuali i conti non tornano. Qualora infatti riuscisse ad esplicitare i criteri impliciti adottati dall’autore nel formulare un giudizio su un’opera, e tentasse di applicarli allo studio di un’ulteriore opera prima di leggere i commenti su di essa, egli giustamente si aspetterebbe di giungere alle medesime conclusioni dell’autore; ma questo non accadrebbe necessariamente, perché in molti casi, cambiando gli oggetti di studio, lo studioso potrebbe aver cambiato, implicitamente, i criteri di giudizio. In questi casi non resta, al povero studente, che immagazzinare tanti giudizi incomprensibili e tante conclusioni inverificabili da recitare su richiesta.
Anche questo fa parte del «metodo» scorretto con cui oggi si fa ideologica pedagogia anziché onesta didattica: in modo «dottrinale», senza parlare delle teorie scientifiche assunte nel condurre uno studio (qualora se ne siano assunte) e senza parlare di altri studi condotti da diverse prospettive sul medesimo oggetto di studio; impedendo così allo studente di rifare i conti in tasca al docente, di ripercorrere il suo cammino analitico, di confrontare i giudizi di quello con altri giudizi di studiosi, e di considerare il «caso» trattato come un «esempio» da cui trarre insegnamenti di carattere metodologico per poter trattare autonomamente altri casi.
Perché questo possa accadere il docente dovrebbe essere tale non per il potere «autoritario» conferitogli dal suo ruolo, ma per «autorevolezza», non presupposta ma conquistata, in ogni momento, «mostrando» senza timore ai propri studenti «come» egli è in grado (se lo è davvero) di trattare una questione: ricavando per via scientifica, dalla correlazione tra informazioni preesistenti, nuove informazioni. Ma questo sarebbe un altro modo di fare didattica, basato sulla partecipazione degli studenti a un vero e proprio «laboratorio di ricerca scientifica», dapprima come osservatori, poi come sperimentatori, poi come ricercatori; un laboratorio dove il docente, mentre fa ricerca, si fa osservare e «maieuticamente» coinvolge i suoi allievi nel processo di indagine, insegnando con l’esempio, «mostrando» e spiegando con la forza delle argomentazioni scientifiche e non «dimostrando» con la retorica del pubblicitario, del venditore, dell’imbonitore.
La scuola di oggi sembra invece avere adottato come modello pedagogico – o peggio demagogico e ideologico – proprio quello delle televendite e della politica, dove il docente «dimostra» abilità che spesso non possiede, cioè recita la parte del sapiente, del depositario di saggezza, anziché mostrare ciò che ha appreso ed è in grado di esercitare studiando un testo e mostrando come fa; inscenando un piccolo spettacolo – magari una «presentazione multimediale» – come uno speaker televisivo, o meglio come un prestigiatore o un attore, prevedendo persino battute e sorprese per strappare al suo pubblico inconsapevole applausi e consenso, si preoccupa di piacere anziché di ciò che alla fine dello show i suoi studenti avranno appreso. D’altro canto egli sa che il pubblico soddisfatto, dopo aver goduto di una più facile ed emozionante esperienza spettacolare, non trova ragione per chiedere conto di ciò che avrebbe dovuto apprendere. E’ appunto la differenza tra «dimostrare» e «mostrare», che Rossellini ci ha insegnato a tenere bene a mente quando «insegniamo» e non «recitiamo». Si «mostra quello che si sa, si fa e si è», si «dimostra quello che non si sa, non si fa, e non si è». Per dimostrare di essere un bravo scienziato non occorre essere uno scienziato, altrimenti non esisterebbero tanti attori e truffatori che ci convincono più di un vero scienziato; basta saper interpretare una parte ben scritta. E questo purtroppo è ciò che imparano anche gli studenti dalla Scuola della Comunicazione nel mondo della Comunicazione: a recitare ciò che non sanno, che non hanno capito ma che possono «abilmente» dar l’idea di sapere convincendo qualcuno che probabilmente a sua volta non sa distinguere se ciò che hanno recitato abbia senso o no.
Non a caso nel nostro mondo attuale, ormai completamente e fragilmente sorretto dalla «Comunicazione», sono proliferate sedicenti Scuole e Università online che offrono diversi livelli di ingannevole complicità tra venditori e clienti (non dimentichiamo che in questo mondo gli studenti sono ormai assimilati a clienti).
Tra i livelli più ingannevoli c’è quello che si può verificare ormai anche in una Scuola o Università cosiddetta rispettabile per il suo passato, ma che per ragioni economiche abbia deciso di allinearsi a quagli Enti rivali che le fanno concorrenza portandole via studenti con proposte più allettanti per conseguire i titoli: qui si valuta e si attesta la presenza, no la competenza, si richiede che si dichiari che il proprio docente è bravo (anche se non lo si pensa), e, grazie alla «partecipazione», si ottiene un diploma che permette al cliente-studente di poter attestare competenze che non ha conseguito, e al contempo di far pervenire, alla Scuola o Università, sia più finanziamenti – in relazione al successo delle «presenze» – sia più studenti – per il passaparola sulla facilità di conseguimento dei «titoli» di studio.
Poi c’è il livello un po’ più ambiguo, che consiste nell’iscriversi a corsi più brevi e sintetici online, dove non è richiesta neppure la presenza fisica, e dove si possono «scontare» come «crediti» – attraverso abili giochi linguistici – varie attività – persino umili e vergognose – svolte in precedenza.
Infine c’è il livello più esplicitamente truffaldino, che consiste nel «comperare» un diploma semplicemente pagandolo, come espliciti «clienti», per il servizio ottenuto dal Diplomificio, in genere più caro di quello ottenibile da una Scuola o Università regolare, ma più rapido e soprattutto efficace, in quanto purtroppo equiparato (ai fini di un concorso, di un salto di stipendio e di responsabilità nel lavoro) a quello che si può ottenere ancora … studiando.
D’altro canto in una società che vorrebbe che la Scuola, fin da quella di base, fosse solo un mezzo per la formazione professionale, come una caserma dove addestrare i ragazzi a rivestire un ruolo nella vita che spesso non richiede alcuna competenza ma solo un titolo e una buona raccomandazione, a chi interessa ancora educare i ragazzi perché diventino persone migliori di quelle che si approfittano di noi in ogni modo e ogni giorno? A chi interessa che nella Scuola si insegni altro che non sia ciò che aiuterà i ragazzi a diventare degli abili, spregiudicati e cinici imprenditori di successo ad ogni costo (i più fortunati, cioè eredi di qualche fortuna) o automi umani da sfruttare, anche grazie alle loro incapacità, come mano d’opera a bassissimo costo e facilmente rimpiazzabile?
Ciò che è più sconfortante è che già la Scuola di base sia condizionata dal modello formativo economico ed efficientistico, che richiede una tipo di apprendimento specialistico settoriale orientato al mercato del lavoro. In questo modo si perde l’occasione di far sperimentare ai ragazzi, preliminarmente o alternativamente, «come» si studia e come si progetta, come si fa scienza e come si fa arte con la scienza, come ragiona uno studioso e un autore, anziché o prima che vengano fornite e inculcate una quantità di «nozioni» che in quanto tali verranno rapidamente rigettate, perché scollegate sia tra loro sia con quelle già in possesso dei discenti. Ad essi si forniscono, invece, conoscenze tecniche, utili forse per svolgere un lavoro, ma inadatte a sollecitare capacità elaborative «disinteressate», come quelle che può offrire lo studio metodologico dei procedimenti della scienza e dell’arte.
Come può, dunque, questa Scuola contribuire alla formazione di nuovi artisti e scienziati, se l’arte e la scienza sono trattate come «materie», al pari delle altre, come insiemi di «nozioni» da apprendere e collezionare insieme ad altre di tipo storico, tecnico, sociologico, psicologico?
Quando iniziammo la nostra attività, cominciava la «moda» di introdurre anche nella Scuola di base la musica, la pittura, il teatro, il cinema per farne attività “integrative” di “animazione”, per favorire la “socializzazione” e la “creatività”. Noi ci convincemmo, invece, che questa opportunità andava sfruttata, proprio a partire dalla Scuola di base, non per introdurvi un po’ più di spontaneismo, o per aggiungervi ulteriori lezioni tecniche o storiche o sociologiche, ma per mettere in moto quel pensiero logico, quelle capacità elaborative che purtroppo già dalla scuola di base venivano inibite anziché stimolate.
Al momento della nascita del nostro Istituto si era già affermata l’idea che occorresse operare uno strappo con la tradizione umanistica a favore di una cultura contemporanea basata sulla dissacrazione della classicità. Nella scuola si era introdotta l’idea dello spontaneismo che avrebbe portato all’abbandono dello sviluppo dell’intelligenza a favore della socializzazione, della partecipazione e della condivisione.
Al contempo questa scuola umanistica ridotta a Centro Sociale era già scoraggiata a favore di una scuola tecnicistica ed economicistica orientata a introdurre rapidamente gli allievi nel nuovo modo del lavoro online, che richiedeva solo clienti e venditori, e preparava il terreno al mondo dei follower e degli influencer, utenti addestrati che sapessero usare la rete per vendersi e per gestire vendite online.
Il nostro Istituto sin dagli inizi cercava una strada – necessariamente controcorrente – per tramandare gli insegnamenti dei grandi umanisti del passato e formare gli umanisti del futuro, e fornire alla Scuola nuovi strumenti per favorire lo sviluppo delle capacità elaborative dei ragazzi, frustrate tanto dalla didattica nozionistica e settoriale quanto dalla concezione spontaneistica delle attività “creative”.
Da allora tutta la nostra attività si è svolta su due piani:
– da un lato ricercare ed esplicitare nei progetti e nelle ricerche di artisti e scienziati tutta la metodologia da loro utilizzata: il loro modo di ragionare, di sviluppare idee, che rende in questo senso qualunque loro progetto mai vecchio e superato, ma sempre un «modello esemplare» di «come» affrontare una questione, di come risolvere un problema, di come giungere a una scoperta. In questo senso abbiamo privilegiato ovviamente quegli autori e quegli studiosi che hanno dedicato ampio spazio a riflettere su e a parlare di «questioni metodologiche». Ma abbiamo anche considerato quegli autori che hanno lasciato un’opera monumentale in cui il metodo di ricerca e studio progettuale era implicito e tuttavia indirettamente percepibile nella perfezione e sistematicità dell’opera stessa; in questi casi bisognava ricavare e verificare i principi metodologici utilizzati dall’autore/studioso andandoli a ricercare in ogni segmento dei suoi lavori. E siccome quei principi erano poi puntualmente ritrovati in ogni parte, applicati in modo rigoroso nell’elaborazione delle soluzioni che esaminavamo, questo stava evidentemente a significare che la loro presenza non era casuale ma frutto di un disegno preciso, di una sistematica applicazione di regole e di uno sfruttamento ottimale dei medesimi elementi;
– da un altro lato abbiamo sempre cercato di fare di questa metodologia, ricavata dall’opera di grandi studiosi e autori, l’oggetto di apprendimento in attività di formazione e didattica; così ci siamo adoperati perché, dalle stesse opere di quegli autori e studiosi, gli insegnanti e gli studenti potessero ricavare strumenti metodologici per poter meglio controllare i processi analitici e creativi proprio in quei campi – umanistici – ove la scienza è considerata non pertinente, neppure come prezioso strumento di studio analitico e progettuale.
In questa prospettiva il nostro obiettivo primario è diventato rapidamente quello di trasformare «archivi inerti» di opere di grandi autori-studiosi in «botteghe virtuali»: ambienti di studio, formazione e didattica online, in cui creare e rendere fruibili sistemi ipermediali per aiutare gli utenti ad apprendere, da opere classiche, la lezione di metodo racchiusa in esse.
Con questa spinta metodologia abbiamo cominciato a sviluppare i primi Sistemi di apprendimento interattivi e reticolari – inizialmente offline ma già in forma ipermediale – che, mentre permettevano di esplorare correlazioni intra- e inter- testuali tra opere di tempi, luoghi e forme espressive diverse tra loro, insegnando a scoprire legami impliciti in base a come erano fatti i testi e non in base agli argomenti trattati, al contempo permettevano di acquisire principi metodologici di narrazione e composizione con ogni forma espressiva: «competenze» oltre che «conoscenze».
Potremmo dire, in estrema sintesi, che la nostra attività consiste da sempre in questo: stimolare l’esplorazione delle correlazioni tra testi di ogni tempo, luogo e forma espressiva, attraverso principi condivisi dai testi stessi; e simultaneamente stimolare l’apprendimento metodologico dei principi utilizzati per esplorare le correlazioni intra e inter testuali.
I «Sistemi di Studio Reticolare», che dopo lunga sperimentazione siamo finalmente riusciti a ottimizzare e a rendere distribuibili completamente online, sono stati concepiti per far accrescere non solo le «conoscenze» (scoprendo nuovi testi correlati tra loro) ma anche le «competenze» (i criteri di correlazione, cioè i principi di narrazione e composizione condivisi) dei fruitori, invitandoli e insegnando loro a esplorare le correlazioni implicite nei e tra i testi classici, ma al contempo a definire e a studiare i principi utilizzati, nell’esplorazione, per scoprire correlazioni non immediatamente percepibili tra di essi.
Gli utenti dei nostri Sistemi possono infatti ricavare da ogni articolazione di un testo classico tutti i principi presenti, e sono invitati a ricercare quei medesimi principi in altre articolazioni dello stesso testo o in altri testi dello stesso autore o in testi di altri autori; per farlo, essi esplorano un reticolo intra- e inter- testuale di correlazioni, utilizzando e scoprendo i principi condivisi tra i testi o tra le parti di uno stesso testo.
I nostri primi esperimenti, in questa prospettiva, hanno avuto per oggetto alcuni capolavori del teatro musicale, altri del teatro di prosa, altri ancora della letteratura, della pittura e del cinema.
Uno dei primi prototipi riguardava l’opera di Lewis Carroll, e si sviluppava a partire dal suo capolavoro Alice nel paese delle meraviglie; con esso mostravamo come si potesse creare un Sistema ipertestuale che non fosse chiuso all’interno di un testo (Alice) e che non si sviluppasse solo attraverso il punto di vista di uno studioso settoriale; il Sistema reticolare che avevamo ipotizzato ed esemplificato, con le soluzioni tecnologiche di allora necessariamente offline, si basava non solo sull’intera opera di Carroll, ma anche sulle opere degli autori che indirettamente avevano dialogato con lui e su quelle di coloro che continuano ancora oggi a dialogare con lui, nonché sugli studi di tutti coloro che hanno compiuto indagini da diverse prospettive sul capolavoro di Carroll, e sui manuali teorici su cui quegli studiosi si sono preparati. Insomma, era un Sistema che permetteva di esplorare correlazioni interne ad Alice nel paese delle meraviglie, tra Alice e i suoi complementi multiespressivi (illustrazioni), le sue varianti esplicite ed implicite, e le sue riscritture e messe in scena; tra Alice e altri testi di Carroll, tra l’opera di Carroll e quella di altri autori, e infine tra l’opera di Carroll e le riflessioni saggistiche degli studiosi che se ne sono occupati. Riguardo a questi ultimi in particolare venivano messe a confronto, indirettamente, le prospettive teoriche adottate, esplicitando gli approcci analitici all’opera di Carroll cioè le teorie assunte come assiomi impliciti, come presupposti delle indagini. Il sistema permetteva di studiare l’opera di Carroll anche scoprendo quei testi correlati che costituivano varianti implicite o esplicite dello stesso modello logico, e perciò condividevano con essa una parte dei principi narrativi e compositivi; al contempo permetteva di riflettere sull’opera critica di coloro che avevano applicato il loro ingegno allo studio dei progetti di questo autore, e sulle teorie adottate dagli studiosi ma anche dallo stesso Carroll (logica, linguistica, retorica) nell’elaborare i loro testi.
Tra i primi prototipi sviluppammo anche un sistema basato sul «dialogo diretto e indiretto tra Truffaut e Hitchcock», in cui mostravamo come i rapporti tra questi due autori si sviluppassero non solo attraverso dialoghi diretti (attraverso interviste e lettere), ma anche indirettamente attraverso le loro individuali opere narrative e saggistiche, in cui condividevano i medesimi principi di cui parlavano nelle loro conversazioni; principi che si ritrovavano sistematicamente applicati tanto nei capolavori narrativi dei due stessi autori quanto in quelli degli autori non solo cinematografici che essi consideravano loro maestri. Questo sistema permetteva di dare avvio alla costruzione di un «manuale reticolare di narrazione audiovisiva», e al contempo permetteva di applicare il manuale stesso, in modo sistematico, all’opera di questi due eccezionali «autori-studiosi»; quindi il Sistema costituiva anche uno studio dell’opera di Truffaut e di Hitchcock da un punto di vista metodologico nuovo, rigoroso e scientifico suggerito dai due stessi autori e basato sulla loro stessa riflessione metodologica sui principi che hanno guidato il loro lavoro. Prima di iniziare lo sviluppo del sistema impiegammo molto tempo nella ricerca dei documenti, e contemporaneamente nello studio sistematico dei progetti e degli studi dei due autori-studiosi. Poi affrontammo i problemi tecnici della realizzazione (bisognava costruire una rete di connessioni tra documenti memorizzati su diversi dispositivi offline: CD-rom, laserdisc, hard disc) e quelli, non solo tecnici, della distribuzione, cercando di convincere editori letterari e audiovisivi – peraltro di due diversi continenti – a cooperare nel mettere a disposizione i diritti d’uso per un grande progetto educational (ed eventualmente commerciale) che avrebbe rivoluzionato lo studio della cinematografia; il libro in cui era pubblicata la più famosa e più lunga – nonché diretta – «conversazione» tra i due autori era infatti tradotto in numerose lingue e pubblicato in tutto il mondo, ma gli altri scritti e interviste erano sparsi in una moltitudine di media e supporti; così come i film dei due autori erano solo in parte pubblicati in vari formati ed edizioni, prima in formato VHS poi su Laser Disc e quindi su DVD; alcuni di essi tuttavia non erano ancora stati pubblicati nel mercato audiovisivo. Nonostante le innumerevoli complicazioni e resistenze degli editori, dei distributori e degli aventi diritto spaventati dall’idea di ridurre i loro guadagni o di imbarcarsi in un’operazione onerosa e senza guadagni immediati, siamo riusciti anche in questo caso a realizzare un prototipo e a mostrare, in vetrine internazionali, quale avrebbe potuto essere la nuova frontiera della manualistica, dello studio rigoroso della narrazione artistica, dell’editoria elettronica, della formazione umanistica.
Un altro progetto su cui investimmo molte risorse riguardava l’opera di Ernst Lubitsch, che ci appariva come un perfetto «sistema di variazioni» interne ed esterne al suo cinema; un sistema di variazioni tra i suoi film e opere non solo cinematografiche, di tipo letterario, teatrale e musicale, con cui Lubitsch aveva stabilito un dialogo indiretto e con cui aveva tessuto una parte significativa di quella rete di studi e progetti della tradizione umanistica mitteleuropea – su cui egli si era formato – che costituisce uno dei nostri interessi primari. Con questo sistema potevamo mostrare come il cinema d’arte di Lubitsch non fosse altro che la continuazione di quella tradizione artistica che nel teatro di prosa e musicale, nella letteratura e nella pittura mitteleuropea aveva già creato i più alti capolavori.
L’idea di iniziare a sviluppare alcuni prototipi di Sistemi ipermediali dedicati al cinema era nata proprio dalla riflessione che in questo campo più di altri era solo scarsamente e implicitamente applicato il metodo scientifico, sia nella progettazione che nello studio delle opere.
Di conseguenza la nostra attenzione si concentrava sulle opere cinematografiche di quegli autori che – come riteneva John Ford – erano riusciti a mostrare come si potesse «fare arte anche con il cinema»; il primo (non solo cronologicamente) tra essi era appunto Ernst Lubitsch. L’opera cinematografica di Truffaut e di Hitchcock ci interessava in particolare perché supportata da un’impianto teorico-metodologico creato da questi due autori in quasi quaranta anni di dialoghi e studi sulla narrazione audiovisiva. Inoltre ci interessavano quegli autori che nel cinema erano riusciti a creare nuovi «classici» della narrazione artistica, interrelati da un lato con la tradizione umanistica precedente al cinema, e da un altro con quella contemporaneità che, se non conosceva direttamente la tradizione umanistica, si era almeno ispirata ad essi, creando varianti implicite o esplicite correlate alla loro opera.
In questa stessa prospettiva abbiamo anche lavorato per alcuni anni – insieme ad una prestigiosa Università americana – al progetto di un corso/manuale di perfezionamento autoriale che permettesse agli utenti di studiare «come» alcuni grandi autori (Lubitsch, Chaplin, Hitchcock, Truffaut, Welles, Disney, e qualcun altro) fossero riusciti a creare capolavori d’arte anche nel campo cinematografico; il corso mirava a far acquisire quelle capacità ulteriori – dopo quelle tecnologiche, storiche, e sociologiche offerte dalla formazione universitaria – necessarie per ideare non semplicemente un film, ma un un film «come lo farebbe» un grande artista.
Contemporaneamente avviammo una sperimentazione in partnership con l’allora “Area Formazione e Ricerca del Teatro La Fenice di Venezia” dedicata ai capolavori del teatro musicale, per creare i primi prototipi, in forma ipermediale, per lo studio interdisciplinare delle arti narrative, considerando il teatro musicale come il laboratorio ideale per indagare la vera multimedialità: quella straordinaria capacità, sviluppata dai grandi compositori e librettisti, di elaborare progetti narrativi che sfruttino diverse forme espressive per articolare la narrazione su più piani distinti e tra loro complementari. Lavorando sul patrimonio operistico abbiamo scoperto le insuperate lezioni metodologiche dell’«opera totale» wagneriana e delle «disposizioni sceniche» verdiane, che ci hanno permesso di ricavare, anche dalle stesse opere di questi maestri, alcuni degli strumenti metodologici indispensabili per studiarle.
Sempre grazie alla partnership con l’allora innovativo ufficio educational del Teatro La Fenice abbiamo potuto sviluppare numerosi prototipi di Sistemi dedicati alla narrazione artistica multiespressiva per l’infanzia, in particolare a quei capolavori che avevano avuto riscritture esplicite o implicite per il teatro musicale.
Poi insieme all’ ERT Emilia-Romagna Teatro abbiamo sviluppato una serie di prototipi dedicati all’opera di Shakespeare, con cui abbiamo potuto mostrare come essa da un lato influenzi tutta la narrazione contemporanea, e da un altro costituisca un ponte per esplorare correlazioni con capolavori artistici di ogni tempo, luogo e forma espressiva. Inoltre abbiamo potuto mostrare come nell’opera di Shakespeare sia presente – e magistralmente applicata – la maggior parte di quei principi universali di narrazione che noi ricerchiamo e cerchiamo di apprendere in opere d’arte di diversa natura.
Ognuno di questi prototipi è stato oggetto di sperimentazione in diverse regioni e in Scuole di diverso ordine e grado del nostro Paese. Grazie a questi «prototipi offline» abbiamo potuto elaborare un’idea più generale di prototipo di «Sistema Formativo e Didattico Reticolare E-Learning» su cui si basa, ora, l’attività dei nostri Laboratori di studio online, nelle nostre Botteghe virtuali, in cui progettiamo e sviluppiamo i Sistemi di Studio Reticolare destinati all’ “Edumediateca per la Didattica dell’Arte Narrativa”, al “Circolo dei Cercatori di Tesori nei Territori Inesplorati dell’Arte Narrativa”, all’ “Alta Scuola di Perfezionamento in Narrazione Artistica Poliespressiva”.
Di seguito cercheremo di collegare progressivamente i numerosi testi di lezioni, conferenze, saggi che abbiamo prodotto, negli anni, per presentare e illustrare – ai nostri potenziali utenti, sostenitori e partner – la proposta metodologica con cui vogliamo contribuire a cambiare il modo di fare educazione e formazione a partire dall’educazione dei ragazzi fino alla formazione dei nuovi umanisti.
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