Quando si studiano «storie» rese immortali da almeno un «capolavoro artistico» – ad esempio quella di Romeo e Giulietta resa famosa dalle «versioni» di Bandello, di Da Porto, e in ultimo di Shakespeare – si scopre sempre che esse affondano radici profonde da un lato nelle «cronache storiche», che offrono sempre spunti per poter dire “è tutto vero!”, e dall’altro nella «narrazione letteraria» stessa, perché le grandi storie sono poche, ma si «tramandano» e si «trasformano», creando tante «varianti» pur sempre riconducibili a «modelli archetipici» «logici» piuttosto che «storici» (si vedano in proposito, gli studi condotti da Propp in entrambe le direzioni, sottolineando la differenza tra: ricercare le “radici storiche dei racconti di fiabe”, oppure studiarne la “morfologia”, cioè i modelli logici condivisi parzialmente da gruppi di fiabe imparentate tra loro).
Anche nel caso di Romeo e Giulietta non cessa mai la caccia a «la fonte delle fonti» per determinare chi abbia ispirato chi, e quale sia «la prima versione» – di cui si possano riconoscere evidenze in «miti» e «fiabe», e che sia «documentata» da «cronache» o «trascrizioni» della «cultura orale» – che possa aver ispirato uno scrittore che a sua volta abbia ispirato l’autore che l’ha resa più famosa e vicina a noi. Come dire: chi mai avrà ispirato gli autori del musical e del film West Side Story? A questo proposito, alcuni anni fa, paradossalmente, una nuova edizione dell’ Odissea di Omero veniva venduta con una fascetta che la reclamizzava come “il libro che ha ispirato il film Fratello dove sei? dei fratelli Cohen”; evidentemente gli editori – per pubblicizzare un «classico della letteratura» in un mondo che cerca solo novità e semplicità, e possibilmente poca letteratura – avevano colto l’opportunità di avvalersi di una novità semplice e cinematografica che tuttavia, per autoproclamarsi un prodotto di qualità, si era attribuita una presunta «parentela» illustre con Omero, soddisfacendo così la critica che considera i Cohen degli intellettuali nel paese dei rozzi, e nobilitando un film mediocre agli occhi degli spettatori che, pur ricercando cose rozze, amano sentirsi a loro volta degli intellettuali).
In genere queste ricerche «genetiche» si arenano quando diventa difficile dimostrare (persino con degli artifici, come accade quando si cerca di «dimostrare» una tesi pregiudiziale) che un autore abbia letto un altro autore, o che la novella raccontata in un secolo e/o in un luogo lontano, con certi personaggi e certo intreccio, possa essere ritenuta remota parente di quella che si assume come riferimento.
Anche se si assumono come «pietra di paragone» i «temi» e «motivi» riscontrabili nelle novelle considerate «parenti», non si fanno molti passi avanti; si finisce solo per riscoprire quella verità che ogni fruitore ha già intuito sin da piccolo: che tutte le novelle del mondo sono fatte di «elementi» simili e seguono «regole» simili.
Per capire non «se», ma «quanto» alcuni racconti siano «imparentati» tra loro, occorre piuttosto andare a studiarne la «formula», come insegna Propp nella sua Morfologia della fiaba anche se lui stesso si ferma a un «livello analitico» non «generalizzabile». Prendendo (a proposito) «ispirazione» da Propp, si può però tentare di spingersi più in profondità (come ci invitano a fare Levi-Strauss e Cirese), cioè, a un «livello» in cui non le «parti costitutive» e neppure le «regole universali» impiegate, ma le «soluzioni» con cui «elementi e regole» si compongono, per creare «strategie» simili, possano essere identificate analizzate e comparate. A questi livelli, come per il dna di un individuo, si possono riconoscere ampie zone comuni, sovrapponibili, e riconducibili le une alle altre con pochi passaggi per «trasformazioni algoritmiche». Non dimentichiamo che le «soglie» con cui introduciamo una «differenza qualitativa» tra due fenomeni, le stabiliamo operando una «segmentazione in un continuum quantitativo», che se non viene mai interrotto confonde tutto con tutto e rende persino impossibile stabilire se si tratta di esemplari simili ma appartenenti a due classi differenti, o se invece esemplari con variazioni «irrilevanti» di uno stessa tipologia di fenomeni.
Ma anche quando classifichiamo due oggetti come simili e tuttavia li assegniamo a due classi distinte, possiamo domandarci quanto sono simili e in base a quali tratti distintivi abbiamo stabilito la linea di demarcazione. Se il dna di un scimpanzé corrisponde a quello dell’uomo in una percentuale vicina al 98% … perché non definirci «scimpanzé con qualcosa in più»? E perché non immaginare un’unica novella (La novella delle novelle o “Lo cunto del li cunti”) che per «trasformazioni» e sviluppi «generi» tanti racconti rinnovandosi ogni volta che viene narrata?
La scuola dovrebbe essere il luogo giusto per sperimentare e capire «come» si creano, si stabiliscono e si modificano – con metodo scientifico – le «tassonomie» (nell’esempio quella degli «Ominoidi», tanto modificata nel tempo dalle stesse scienze biologiche) anziché affrettarsi a farle assumere, in modo dottrinale, come «presupposti» impliciti. Si tratta degli «automatismi», molto utili per la vita di tutti i giorni, ma ostacoli difficili da superare – in quanto radicati come come una «seconda natura», come pregiudizi inconsapevoli e perciò non avvertiti come tali – da tutti coloro che vogliano imparare a fare, a studiare e a insegnare l’arte e la scienza.
Un bravo insegnante potrebbe aiutare i ragazzi a sviluppare la loro intelligenza assegnando stimolanti compiti elaborativi, come ad esempio « trasformare», con una serie di passaggi («gradi di separazione»), una novella in un’altra (proprio come una «porta» in un «tavolo» o una «falce» in una «spada» o un «budino» in una «colla»). In questo senso anche cercare gli «antenati» di una «penna a sfera» o di un «automobile» o di un «termosifone» o di un «letto» (consultando antichi dizionari ma anche iconografia e cronache storiche) può essere utile per accorgersi che oggetti distanti per «usi» o «significati» possono tuttavia condividere «strutture» logiche e materiali comuni (si può scoprire che l’antico «stilo» romano – nella versione in piombo – è imparentato con la «penna di piombo» utilizzata dai «padri pellegrini», imparentata a sua volta con i «proiettili» dello stesso tempo in quanto ottenuta martellando una «palla di piombo» usata allora come «munizione»; una «carrozza» slegata dal traino dei cavalli e munita di motore può essere riconosciuta come l’antenata della nostra «automobile»; un «caminetto» per scaldare, cucinare e illuminare, può essere considerato l’antenato dei nostri – separati – «termosifone», «lampada», «forno», etc). “Risalire fino ai rami comuni”, come invitava a fare il grande etno-antropologo Ernesto De Martino, non è tanto diverso da quello che l’ancor più grande suo allievo Alberto Cirese invitava a fare, mostrandoci come e dove ricercare «affinità strutturali» tra fenomeni, distanti nel tempo e nello spazio, che non dichiarino esplicite (a volte persino false) e univoche o reciproche ispirazioni, imitazioni, variazioni. Può essere un buon inizio per arrivare a padroneggiare la «logica» piuttosto che la sola «storia» delle «trasformazioni strutturali e funzionali» degli oggetti che ci circondano.
È fin troppo facile trovare «tracce» di una storia come quella di Romeo e Giulietta (lo stesso vale ad esempio per Cenerentola) in novelle antiche e di diversi paesi; ed è una speculazione in buona parte inutile cercare di ricostruire «geneticamente» la via che porterebbe dalla letteratura greca e latina antica a Shakespeare (dai Babyloniaka di Giamblico, dagli Ephesiaka di Senofonte Efesio, dalla storia di Piramo e Tisbe nelle Metamorfosi di Ovidio …). Non si riesce neppure a stabilire se Shakespeare abbia letto Bandello o Da Porto; solo grazie alle evidenti «similitudini» con la versione a lui «geograficamente e temporalmente più vicina» – quella di Arthur Brooke – si si è fatta risalire la versione di Brooke a quella di Painter, traduttore di Boisteau, a sua volta traduttore di Bandello; e quindi si è potuta stabilire una ragionevole – nonché palese – parentela tra i due racconti che qui confrontiamo.
È certamente stimolante, ai fini didattici, fermarsi a riflettere sul «gioco del telefono senza fili» per scoprire e capire come un testo si moltiplichi in tante «varianti» anzitutto grazie alla «trasmissione orale», e poi alle «traduzioni letterarie» traditrici; ma è ancora più interessante – sempre ai fini didattici – fermarsi sul problema «metodologico» della «stratificazione» di «riscritture» che puntualmente si ritrova come condizione necessaria per la nascita di un’«opera d’arte».
Nel caso di Romeo e Giulietta occorre considerare che se già la novella di Bandello appare come una piccola opera d’arte, il dramma shakespeariano, da essa ispirato, raggiunge la sua perfezione anche proprio grazie allo studio dell’architettura della «versione» di Bandello, senza dimenticare quella di Da Porto che, indipendentemente o attraverso la rielaborazione di Bandello, non poco ha plausibilmente contribuito alla creazione del capolavoro di Shakespeare.
L’arte intesa come «studio-progettuale» presuppone uno «studio-analitico» in cui un autore «smonti» e «rimonti» oggetti preesistenti, per «scoprire» le «possibilità logiche» non «attualizzate» e pur presenti nei «modelli logici» comuni; ma soprattutto occorre che li «trasformi», perché, stabilendo «impreviste correlazioni» tra parti di oggetti «non immediatamente e direttamente correlabili tra loro», egli possa creare «nuovi oggetti imparentati con essi e con tanti altri».
Provate a riconsiderare un grande racconto, che già conoscete, come un «incrocio» tra altri racconti; e immaginate cosa accadrebbe a una fiaba che amate, se a un certo punto la storia prendesse una deviazione imprevista che la facesse entrare in un’altra storia. “Noi siamo gli altri” dicono sia scienziati, come Henri Laborit, sia grandi artisti, come François Truffaut. All’occhio attento di uno studioso ogni grande racconto appare infatti come progenie imprevista risultante da matrimoni non autorizzati tra autori anche assai distanti tra loro, in vita; una progenie che trae, loro malgrado, il meglio da ciascuno di essi.
La domanda che dovremmo porci non è dunque se Shakespeare si sia ispirato a Bandello o a da Porto, ma a quanti si sia ispirato; o meglio da quanti testi preesistenti abbia tratto la necessaria «materia narrativa» e persino «espressiva» da mettere in forma per comporre un «suo» capolavoro, logicamente e dichiaratamente imparentato con essi sin dal nome dei protagonisti e dall’ambientazione. Diverso è infatti il rapporto che lega «dichiaratamente» – «esplicitamente» e «direttamente» – tra loro i tre racconti qui considerati – di Luigi Da Porto (1529), di Matteo Bandello (1554) e di William Shakespeare (1594/96) – dal rapporto che lega i loro racconti a quello di Masuccio Salernitano (1476) a cui pure è evidente che il racconto di Shakespeare «indirettamente» ispira: attraverso Brooke (1562) che riscrive Boaistuau (1559) che traduce Bandello che probabilmente riscrive Da Porto probabilmente ispirato da Salernitano. Se considerassimo il legame «indiretto» tra il Romeo and Juliet di Shakespeare e la trentatreesima novella del “Novellino” di Masuccio Salernitano, la «parentela» non apparirebbe esplicita come negli altri casi (i protagonisti della novella di Salernitano si chiamano Mariotto e Ganozza e vivono a Siena) ma sarebbe ugualmente rintracciabile nelle soluzioni e strategie presenti nel racconto.
Questo stesso ragionamento si può estendere alla ricerca delle parentele più o meno strette tra i progetti narrativi dello steso Shakespeare: per esempio, se il Frate Lorenzo del suo Romeo and Juliet fosse più accorto, e il suo piano andasse in porto senza intoppi, e se i genitori di Giulietta, una volta pianta la loro figliola, avessero una seconda possibilità per rendersi conto delle loro colpe e rimediare ai loro errori …staremmo entrando in Too much ado for nothing; e la nostra «tragicommedia», o «commedia che volge in tragedia», si trasformerebbe in una pura «commedia degli errori».
Provate a fare lo stesso esercizio ricercando le correlazioni logiche tra la storia di Romeo e Giulietta narrata da Bandello e quella di Paolo e Francesca narrata nelle versioni di Dante e di Boccaccio.
Oggetto di interesse dell’Istituto è una particolare metodologia di approccio ai problemi comunicativi, progettuali e cognitivi connessi alla composizione, allo studio e alla didattica dei testi artistici.
Tale impostazione e metodologia tende a far individuare e utilizzare progettualmente:
– distinzioni tra ambiti che in genere vengono associati impropriamente,
– o, all’opposto, relazioni e interazioni tra ambiti che in genere vengono considerati distanti o addirittura irrelati.
Particolare attenzione è rivolta ai rapporti tra: la ricerca scientifica e la ricerca artistica, l’indagine e la progettazione, l’universo comunicativo e l’universo non comunicativo, le forme espressive e le forme narrative nella comunicazione artistica.
Le attività di ricerca, di formazione e di progettazione che l’Istituto svolge, hanno come riferimento i meccanismi – sovente impliciti e fin troppo spesso inconsapevoli – di costruzione, funzionamento e classificazione dei prodotti culturali e artistici. Questa impostazione porta infatti a riconoscere le costanti e le variabili dell’attività ideativa e dell’attività analitica; costanti e variabili che attraversano e in qualche modo prescindono da: i differenti contesti in cui i prodotti sono fruiti, i differenti usi/significati che storicamente e culturalmente sono loro assegnati, i materiali di cui sono fatti, gli strumenti tecnici con cui sono realizzati e, nel caso dei prodotti comunicativi, i valori ideologici che possono essere loro attribuiti.
Tutte le attività dell’Istituto Metacultura, sia che riguardino lo studio, la progettazione o la didattica, si svolgono su due livelli operativi, distinti fra loro eppure strettamente connessi e interagenti.
Il piano analitico e il piano progettuale.
Il primo consiste nell’esaminare e rappresentare il sistema di funzionamento di prodotti presi in considerazione, siano essi adibiti a funzioni comunicative o, invece, a funzioni non comunicative.
A questo livello si mette in atto un procedimento di «scomposizione» che, muovendo dal complesso al semplice tende a ricavare elementi e regole (criteri di indagine, meccanismi di funzionamento, parametri strutturali e funzionali) e modelli risultanti dalla loro correlazione.
Tale procedimento permette di rendere esplicite le soluzioni compositive inerenti ai prodotti, le quali consentono ai prodotti stessi di assolvere le funzioni per cui sono usati («per servire a»: funzioni extracomunicative; «per significare»: funzioni comunicative).
In questa prospettiva gli oggetti vengono considerati come combinazioni di elementi e come attualizzazioni di possibilità offerte dal controllo e dall’applicazione dei principi compositivi che via via si individuano nell’analisi degli oggetti stessi.
Ciò rende anche possibile confrontare e valutare, in base a criteri espliciti oggettivati e definiti, le scelte compiute e le alternative scartate (consapevolmente o meno) dagli autori, nonché le potenzialità (di lettura o di uso) lasciate aperte e pertinentizzate dai fruitori; possono così essere compresi i diversi criteri che governano tanto l’attività di progettazione quanto quella di interpretazione, di classificazione e uso degli stessi oggetti.
In questo modo non si indaga solo sui prodotti, ma, attraverso di essi, si indaga anche sui modi di indagare, classificare, confrontare, comporre, comunicare.
Questa impostazione potrebbe venire pertanto definita anche «strumentale», in un duplice senso:
– sia perché si interessa agli strumenti metodologici della conoscenza, della progettazione e della composizione,
– sia perché, in una prima fase, considera «strumentalmente» gli oggetti indagati, per ricavare principi e procedimenti la cui validità va ben al di là del singolo oggetto preso in esame. E’ in questo senso che gli oggetti vengono considerati come attualizzazioni di un sistema di regole soggiacente.
Va però anche detto, complementarmente, che il considerare oggetti particolari e concreti consente non soltanto di affinare strumenti analitici e progettuali; consente anche di cogliere e apprezzare le qualità dei singoli progetti, proprio in quanto si acquisiscono via via strumenti adeguati per distinguere e valutare la loro complessità e raffinatezza (altrimenti neppure rilevabile in un contesto culturale ormai così condizionato dai problemi della quantità e della novità, al punto da sollecitare troppo spesso letture superficiali e omologazioni grossolane dei prodotti).
In questo modo, inoltre, è possibile far emergere le relazioni strutturali tra i prodotti, nonché le eredità di soluzioni e funzioni che essi possono sviluppare oppure semplicemente adottare.
L’individuazione dei meccanismi di funzionamento di un prodotto consente infatti di scoprire le relazioni di affinità che lo legano ad altri in base alla logica compositiva, ai principi di composizione degli elementi e alle funzioni assegnabili. Legami che possono essere individuati sia lungo l’asse diacronico della storia di tradizioni ed eredità culturali, sia lungo l’asse sincronico e pancronico della
forma compositiva dei prodotti stessi tra loro contemporanei o distanti nel tempo ma correlati logicamente attraverso di essa.
Va sottolineato che l’Istituto non coltiva un approccio storico-filologico nell’analisi dei prodotti (per esempio interessandosi ai dati biografici degli autori, alle loro «intenzioni» e ai contesti filosofico-ideologici) e neppure un approccio «settoriale» (per esempio assumendo distinzioni di «generi», contenuti, usi). L’attenzione prevalente va al «come è fatto» e al «come funziona» il prodotto, all’adeguatezza delle soluzioni rispetto alle funzioni che deve svolgere.
Il piano progettuale
Il secondo livello è quello più propriamente «progettuale e produttivo». Va anzitutto precisato che le cose dette per il livello analitico valgono anche per questo secondo livello, in quanto l’attività progettuale (anche e a maggiore ragione quella artistica) si fonda su un processo di indagine e di ricerca, pena la confusione, lo spontaneismo, la riproposizione meccanica e stereotipata di soluzioni già esistenti. Inoltre l’attività progettuale non può procedere in assenza di riferimenti: essi però possono essere adottati inconsapevolmente o sviluppati consapevolmente e persino esplicitamente
(in tal caso aggiungendo un livello metadiscorsivo sui rapporti tra il testo e i testi correlati ad esso). L’analisi e l’individuazione dei meccanismi di funzionamento di prodotti preesistenti è, in questa prospettiva, il fondamento per studiare meccanismi e soluzioni nuove.
Attraverso l’analisi di prodotti esistenti si possono individuare, confrontare e classificare elementi e regole di composizione.
Tali elementi e regole permettono a loro volta di elaborare modelli compositivi, che contengono, senza
esaurirsi in esse, le possibilità compositive osservate. Questi modelli, oltre a costituire strumenti per l’attività di analisi e di comparazione, svolgono un ruolo importante anche nell’attività progettuale. Essi infatti consentono:
1) di riconoscere e confrontare le affinità e le diversità non superficialmente rilevabili nei prodotti considerati,
2) di operare trasformazioni sui prodotti agendo in modo sistematico sulla variazione di alcuni elementi, fino a realizzare prodotti diversi da quelli d’origine,
3) di ipotizzare nuove combinazioni degli stessi elementi, che possano configurare progetti di nuovi prodotti.
L’attività progettuale può procedere prendendo in considerazione sia il livello delle «soluzioni» («come è fatto» il prodotto), sia quello delle «funzioni» («a cosa serve / che significa» il prodotto). Se gli elementi considerati sono delle «soluzioni», fissandone alcune come costanti e variandone altre si possono ricercare e scoprire nuove possibilità funzionali, nuove possibilità d’uso. Se sono invece delle «funzioni», sempre fissandone alcune come costanti e variandone altre, si possono ricercare e scoprire nuove soluzioni adeguate a svolgerle.
In genere un manuale di studio viene realizzato da uno o più docenti universitari come sussidio per gli utenti del proprio corso di studi, e i docenti, essendo già pagati per insegnare in aula, sono disposti in genere a soprassedere ad un compenso e persino ai diritti d’autore, accontentandosi di inserire la pubblicazione nel proprio curriculum. Inoltre la distribuzione dei manuali agli studenti delle scuole superiori oltre che dell’Univerità (fino ad oggi su consiglio delle stesse scuole) ripaga ampiamente gli editori e consente loro ampi margini di guadagno dopo aver sostenuto le spese per l’edizione e la distribuzione (spesso peraltro già coperte da finanziamenti pubblici per il progetto editoriale).
Il paradosso si raggiunge quando un insegnante che prepara dispense e lezioni all’interno dell’attività per cui è già pagato dall’Istituzione in cui insegna, trasforma le proprie lezioni in aula (o replicate davanti a un computer) e le proprie slide, arricchite con documenti di archivio, in lezioni audio video o multimediali podcast che fornisce a un’utenza più vasta come se fossero una novità e un salto verso l’istruzione e-learning nel mondo digitale. Nondimeno sono da segnalare le piattaforme elearning improvvisate da editori che, pur di mantenere il controllo della produzione dei libri di testo, offrono ora agli insegnati «nuovi strumenti» per fare didattica digitale: materiali di ricerca online, test interattivi per far esercitare studenti e verificarne l’apprendimento, che in ogni caso continua ad avvenire tramite i libri cartacei ma «arricchit»i di «bonus» multimediali online e di equivalenti digitali del libro da fruire su computer. In questi casi è evidente che si tratta del tentativo di «adattamento» dell’insegnante e dell’editore tradizionale a un mondo in cui non sanno come muoversi ma in cui tentano di sopravvivere, cambiando nomi e tecnologia, e sperando così di «riciclare» le cose che già fanno senza che i loro vecchi o nuovi utenti se ne accorgano.
Cominciano però ad essere molte le alternative al libro di testo, all’insegnante stesso, e ancor di più all’editore che vuole frapporsi tra lo studioso e/o l’insegnante e gli studenti offrendo pachetti formativi e didattici che gli studenti e le loro famiglie fino ad oggi sono stati costretti a comperare a caro prezzo. Tuttavia non sempre le alternative sono meglio delle soluzioni ormai consolidate. Senza dubbio il nuovo «mercato educational», che dovrebbe per definizione essere «non-profit», offre alcuni vantaggi, come la possibilità di utilizzare la rete, la banda larga e i formati digitali – tra cui epub e pdf – per distribuire contenuti digitali senza intermediari, riducendo i costi eccessivi di edizione e di distribuzione. Gli autori potrebbero sviluppare loro stessi edizioni perfettamente impaginate, reticolari, interattive, ipertestuali, e potrebbero pubblicarle online offrendole direttamente ai docenti e agli studenti a cui si rivolgono. E i fruitori di questi contenuti digitali potrebbero servirsi di un unico dispositivo, un semplice tablet o laptop, per apprendere, esercitarsi, condividere. Ma tra le possibilità e le eventualità che esse si attuino continua ad esserci di mezzo il mare degli interessi di chi specula sull’arretrateza culturale ed educativa del nostro Paese.
Sarebbe già un grande passo avanti se gli editori fossero caldamente invitati – dalle Scuole e magari dal Ministero della Pubblica Istruzione – a riconsiderare e convertire la loro offerta dal formato cartaceo a quello digitale, eliminando così le spese di stampa e di distribuzione materiale. In tal modo si dovrebbe avere una riduzione sostanziosa dei costi per le famiglie rispetto all’equivalente cartaceo. Ma temiamo che il guadagno degli editori si concentri soprattutto su questa parte del processo produttivo; e inoltre gli autori potrebbero giustamente avanzare maggiori richieste di diritti dal momento che il servizio offerto dai loro editori si ridurrebbe a quello di promuovere i nuovi titoli all’interno di collane già affermate. Un ulteriore passo, più azzardato ma oggi già possibile, sarebbe quello di inserire le offerte degli editori in un «servizio di fruizione illimitata» per l’educational, equivalente a quello commerciale di «Amazon unlimited» per i libri, o di Netflix Streaming per il cinema, o di Spotify e Google Streaming per la musica. Anziché appoggiarsi a servizi esistenti (che richiederebbero percentuali da parte dei grandi distributori digitali) si potrebbe persino creare un nuovo servizio pubblico di questo tipo, offrendo incentivi agli editori per rendere tutti i loro manuali fruibili online e dando così agli utenti finali – insegnanti e studenti – la possibilità di confrontare e scegliere le offerte formative e didattiche, e magari anche di utilizzare più manuali in una sorta di «iper-manuale composito» che integri diversi contentuti ricavati dalle diverse proposte editoriali.
Tutte queste possibilità offerte dall’educational online, che via via saranno rese disponibili da leggi europee che ne consentiranno la libera attuazione, non eliminano, ma anzi pongono con più forza, il problema della «qualità» dell’offerta. L’alternativa al manuale tradizionale analogico chiuso, settoriale e irrelato, e all’insegnante unico impreparato e iperspecializzato, non può essere il «libro fatto in casa o in classe» da autori ancor più impreparati, iperspecializzati e impossibilitati a condurre quelle ricerche che in genere precedono e supportano l’uscita di un serio manuale di studio. I nuovi strumenti di studio non devono essere «versioni elettroniche» dei libri di testo esistenti, con gli stessi limiti ben mascherati da bonus multimediali, ma non devono neppure essere alternative peggiori, magari basate sulla condivisione di esperienze tra insegnanti e su ricerche di studenti piuttosto che su una lunga tradizione di ricerche e studi da parte di equipe di scienziati esperti della materia e dei suoi correlati interdisciplinari. Non devono cioè essere dispense digitali elaborate in fretta attingendo da fonti di seconda mano, e compilando testi già essi divulgativi disponibili online.
Nel fare educational online noi vediamo la possibilità di lasciarci alle spalle non solo l’editoria tradizionale analogica ma anche quell’editoria digitale nata male per colpa di editori avidi, interessati solo a riciclare il proprio magazzino; e vediamo anche la possibilità di superare non solo la formazione e didattica in aula con un insegnante che si è specializzato su un libro e su un autore e costringe i propri studenti a ripetere le sue vane ricerche pubblicate per fare curriculum, ma anche quella finta formazione e didattica online che offre – proprio grazie a un uso spregiudiacto del corso online – ulteriori facilitazioni per chi voglia acquisire un titolo piuttosto che competenze.
La Scuola di Base ha ancora bisogno di insegnanti che stabiliscano con i propri allievi un rapporto di fiducia, quasi familiare, per poter insegnare loro «come» affrontare lo studio: non come una sorta di punizione ma come un piacere; il piacere di imparare a ricavare ed elaborare informazioni raccogliendo stimoli e soddisfacendo quella curiosità che altrimenti i ragazzi potrebbero perdere, anziché incrementare, proprio grazie alla scuola. Perciò occorrono insegnanti ancor più preparati, che siano supportati da nuovi strumenti per fare meglio quello che già in parte fanno.
La Scuola Superiore e l’Università hanno invece bisogno di sostituire i limiti dell’insegnante che conosce poco e male persino la propria materia (e tutto quello che studiosi nel mondo e nel tempo hanno elaborato su di essa), con una «comunità scientifica di studiosi virtualmente a disposizone dello studente» e con una «comuntà di artisti – anch’essi virtuali – disposti a prenderlo a bottega» per insegnargli un antico mestiere; per questo occorre non «un» insegnante e non «un» libro ma una molteplicità di maestri e una molteplicità di fonti attendibili da cui apprendere «competenze» esplorandone le «correlazioni».
Tutto questo si complica ulteriormente quando si parla di strumenti di studio in ambito umanistico.
Mentre il mondo accademico ormai umanista solo di nome sceglie di trattare i testi (per incompetenza o per ideologia) dai soli punti di vista storico e sociologico, il nsotro Istituto continua a trattare i testi dal punto di vista compositivo e interdisciplinare.
Così mentre negli ambiti accademici gli studenti imparano solo a ricostruire la genesi di un’opera o si domandano cosa pensano o cosa pensavano gli spettatori e i fruitori dei testi, l’istituto si occupa invece dei meccanismi di funzionamento dei testi, dei principi di narrazione e composizione insiti in essi, e di cosa pensano gli autori che li hanno creati. E mentre storici e sociologi si interrogano su cosa c’è «dietro» e «intorno» ai testi, noi ci preoccupiamo di scoprire e di insegnare cosa c’è «dentro» i testi, di cosa sono fatti.
L’istituto si occupa infatti di trasformare archivi inerti di grandi autori, normalmente di interesse solo per studiosi del settore e per studenti che hanno bisogno di avvalorare le loro tesi con qualche citazione, l’istituto invece trasforma tali archivi da oggetti di studio in strumenti di studio delle competenze con cui gli autori dei documenti in essi raccolti hanno creato i loro capolavori. In questa prospettiva, riorganizzando reticolarmente tali risorse, e scoprendo legami intra- e inter- testuali in base a principi di composizione inerenti ad essi, creiamo manuali di studio innovativi che poggiano su un giacimento di risorse a cui applicare e da cui ricavare gli strumenti che via via si apprendono. Navigando tra i testi e apprendendo quali principi consentono di correlarli tra loro, da un lato aiutiamo gli utenti a scoprire nuovi punti di vista per osservare gli oggetti che già si conoscono, da un altro li aiutiamoa scoprire nuovi oggetti da osservare e confrontare con i punti di vista scoperti e acquisiti.
In altre parole noi creiamo ambienti di studio «reticolari» in cui è possibile ampliare insieme le proprie «competenze» e «conoscenze». Manuali e antologie, strumenti e oggetti di studio, vengono correlati da molteplici prospettive in un sistema integrato che si espande via via che l’utente cresce. Questa particolarità consente di «saltare» ciò che si conosce già, di decidere da quali presupposti partire e dove fermarsi, cioè quale livello di pertinenza assumere. Mentre un oggetto di studio concepito come un data-base di risorse da esplorare va bene – solo – a chi sa già cosa cercare, un sistema di studio reticolare va meglio per chi non sa già cosa cercare e vuole scoprire nuovi interessi via via che esplora correlazioni tra testi di uno stimolante universo conoscitivo. Per chi non ama già la lirica o per chi non presume di conoscere già tutto o di possedere già una quantità di strumenti tali da consentirgli di cogliere tutta la complessità di un’opera d’arte, questo tipo di strumenti offre una nuova prospettiva formativa e didattica. Nessuno mai da solo potrebbe trovare tante risorse, avere il tempo e il denaro per viaggiare e ricercare e studiare e seguire tutte le correlazioni che i nostri studiosi, dotati di adeguati strumenti metodologici e tecnologici, ricercano, scoprono e raccontano.
Per ognuno di questi titoli l’istituto investe in formazione dei propri studiosi, ricerca di risorse rare, digitalizzazione, editing, restauro digitale, memorizzazione, classificazione, conversione, studio comparato delle risorse, progettazione, narrazione, impaginazione. E oltre a questo l’ Istituto investe nell’acquisizione e nello studio di nuove risorse tecnologiche per creare, conservare, mettere on-line tali risorse editoriali e renderle disponibili ai propri studiosi.
Chiunque voglia collaborare con l’istituto deve possedere una buona formazione umanistica di base, anche se settoriale ma multi disciplinare, e soprattutto una conoscenza di testi classici. Deve mostrare interesse ad acquisire competenze metodologiche scientifiche, cognitive, antropologiche, semiologiche, epistemologiche, logiche. Deve possedere la curiosità e l’umiltà necessari per continuare ad apprendere; deve investire diversi anni per incrementare la propria formazione seguto dall’istituto che a sua volta investe su di lui seguendolo personalmente. Deve collaborare allo sviluppo di sussidi seguendo e supportando l’attività degli attuali autori studiosi dell’Istituto.
Chiunque voglia sostenere l’istituto può dare contributi alla realizzazione di nuovi titoli e avere in cambio la possibilità di fruire di titoli sviluppati e di poter seguire come fruitore le iniziative dell’Istituto. Soprattutto scuole teatri e singoli educatori possono ricevere i nostri servizi didattici informativi e il diritto d’uso dei nostri sussidi offrendo un contributo alle spese di produzione dei nuovi Sistemi che in tal modo si aggiungeranno a quelli che potranno fruire.
Come tutte le ricorrenze, il bicentenario Verdi-Wagner avrebbe potuto costituire una buona occasione per riconsiderare quei luoghi comuni che nel tempo si accumulano intorno a grandi autori divenendo parte della loro stessa fama. Al contrario, anche questa ricorrenza è finita per rivelarsi un’occasione per consolidare tali pregiudizi, e per ridurre il valore della ricerca e dell’opera di questi due grandi autori entro i confini angusti e immeritati della «storicizzazione» e della «lettura ideologica».
Ci sarebbe molto da dire sulla triste abitudine – da parte dei media, degli editori, delle Istituzioni Culturali – di ricordare i grandi autori solo in occasione di ricorrenze, per riabbandonarli all’oblio nei tempi intermedi. Ma almeno potremmo rallegrarci un poco se i Centenari servissero – pur per un breve periodo – a ridare voce ai nostri ignorati maestri, per esempio ristampando la loro opera, ricercando e distribuendo i loro interventi perduti in archivi e magazzini, promuovendo ricerche e progetti per far conoscere «direttamente» il loro lavoro. Invece i Centenari sono per lo più occasione per dare lavoro soprattutto a speculatori che approfittano delle ricorrenze e della celebrità sia pure appannata dei grandi vecchi per autocelebrarsi nonché per arrichirsi alle loro spalle; tanto è certo che non potranno lamentarsi diquello che gli faranno dire per interposta persona e per come verranno usati a fini propagandistici e personalistici. Non fa eccezione questo bicentenario che nonostante i nomi eccellenti e ancora ben presenti nella memoria collettiva per i tanti stereotipi con cui sono ricordati, ha disatteso persino la più semplice e ovvia delle aspettative: la ristampa o addirittura per l’Italia la pubblicazione inedita degli progetti e degli studi di questi autori che potrebbero contribuire anche da morti a mantenere viva quella tradizione umanistica di cui sono stati al contempo eredi e continuatori lasciandoci sciaguratamente il compito di tramandarla.
Mentre tutto il patrimonio del teatro musicale – una di quelle risorse che il nostro paese potrebbe valorizzare per il know how insito in esso – langue per una malattia che lo ha reso oggetto di interesse solo per i melomani, per gli specialisti e per una generazione in via di estinzione (al fuori dal nostro paese l’interesse per la lirica è ancora vivo, anche solo per l’effetto esotico di cui continua a godere), l’occasione per celebrare questi due autori si è di nuovo esaurito per lo più intorno a una rinnovata e insensata ricerca dello scontro tra fazioni – tra verdiani e wagneriani – e ha finito ancora per alimentare quelle polemiche sensazionalistiche su cui si fonda tanta bassa divulgazione, da cui purtroppo non sono estranei neppure i libri di testo e i programmi scolastici. Per molti giornalisti, ma anche organizzatori culturali, riaccendere la fiamma dell’insofferenza tra i mondi di questi due autori, ricercando un po’ di facile consenso intorno a una riduttiva ma efficace opposizione di personalità, è sembrato il modo più adatto per creare interesse, considerando che la polemica e il gossip sono senz’altro il modo più veloce per creare la notizia e per renderla una «scioccante rivelazione» da inserire tra le «novità».
E’ sconfortante che due autori classici possano essere trattati riduttivamente e pretestuosamente come fenomeni antropologici rappresentativi del proprio tempo, da riesumare solo in occasioni di revival e ricorrenze storiche o da citare nei paragrafi previsti dai programmi settoriali della scuola, sottovalutando, o, peggio, nascondendo, il valore metodologico universale dei loro capolavori senza tempo. Ma appare ancora più preoccupante la lettura o rilettura sociologica e ideologica che l’occasione di celebrarli insieme sembra offrire: un ghiotto boccone per chi pensa che l’unico modo per far circolare il nostro patrimonio lirico-musicale sia quello di «attualizzarlo», strumentalizzandolo come «pretesto» per dibattiti politico-ideologici, giustificati da uno pseudo «impegno civile» che permette di «usare» l’arte, al pari di qualunque fenomeno di cronaca o di costume, per fare propaganda politica e ricercare consensi.
Molti pensano che sia un spreco di tempo e di energie cercare nel testo quel valore universale che può farne un classico capace di parlare a un pubblico di qualunque tempo, luogo o generazione – purché competente, cioè preparato per cogliere e apprezzare la complessità dell’arte; molti, infatti – a causa della loro incompetenza – ritengono che sia meglio (o addirittura che non ci sia altro modo che) usare il testo come «pre-testo» per parlare di ciò che sta intorno ad esso (ciò che lo precede e ciò che lo segue) piuttosto che studiare il testo come tale, indagando ciò che sta dentro di esso. In questo modo, anziché interrogarsi su cosa pensa l’autore, ci si domanda cosa ne pensa il pubblico di massa, quali letture riduttive ne faccia in base alle proprie aspettative, proiettandovi le superficiali categorie ideologiche apprese dalla scuola, dalla televisione o da internet. E così, anziché educare il pubblico allo studio della complessità del progetto artistico, lo si diseduca alimentando e giustificando i luoghi comuni con cui si accosta ad esso, quelli trasmessi da un’educazione scolastica ideologica e settoriale, e alimentati dal circolo vizioso del «sentito dire» creato con il rimbalzo tra la televisione ed internet. In questo contesto agiscono le due categorie di «critici» che anche nel nostro paese si spartiscono il mercato dellìopinionismo mediatico: i feticisti pseudofilologi che raccolgono preziosi cimeli, memorailia e gossip da dispensare a sorpresa centellinandoli come erudite scoperte paraarcheolgiche in convegni, saggi e ovviamente articoli sensazionalistici, soprattutto sulla scandalosa e trasgressiva vita privata degli artisti; e poi gli psicodietrologi che accorrono ad ogni ricorrenza ed incidentale occasione di dibattito per proiettare sul lavoro dei grandi le loro personali ossessioni e farci dono delle loro nevrotiche interpretazioni su ciò che secondo loro si nasconde dietro l’opera degli autori, e trattandoci in definitiva come il loro personale analista a cui rivelare il loro disturbato mondo interiore, ma dimenticando di chiederci il conto per averli ascoltati con pazienza senza cacciarli a pedate.
Ancora una volta a farne le spese sono gli autori, anche se le loro opere, in qualche modo, sopravviveranno alle mancate riedizioni così come alla mancata seria promozione e alla mancata seria didattica. I loro lavori rimarranno sepolti sotto la cenere per quelle generazioni future che, prima o poi, ritroveranno l’umiltà e il desiderio di accostarsi ad essi per apprenderne gli insegnamenti piuttosto che per commentarli sbrigativamente dal basso di una incompetenza da opinionisti. Tuttavia non possiamo non domandarci come mai nonostante le spese certamente preventivate per le effimere «Celebrazioni», nessuno in Italia abbia pensato di ripubblicare gli scritti già tradotti di Wagner quali Opera e dramma o L’opera d’arte dell’avvenire. Come mai nessuno ha pensato di ripubblicare o meglio pubblicare – essendosi interrotta prematuramente – la collana delle “Disposizioni sceniche” verdiane (e non solo verdiane) avviata dall’ormai scomparso editore Ricordi?
Chi, invece, subisce passivamente e irrimediabilmente questa situazione è il pubblico degli ignari, dei giovani soprattutto. Essi neppure immaginano che in queste opere è racchiuso quel «patrimonio di insegnamenti impliciti» che potrebbe costituire il fondamento scientifico da cui ripartire per far rinascere l’interrotta tradizione umanistica, vera ricchezza del nostro paese; una ricchezza che non va semplicemente commemorata come sacra reliquia da offrire alla curiosità dei turisti, ma studiata e insegnata come un’«insieme di competenze» da apprendere per poter ricominciare a fare arte al medesimo livello degli autori che ne sono stati protagonisti, considerati troppo spesso «superati», per non dire «irraggiungibili» proprio come la volpe dice dell’uva “acerba” a cui non arriva.
Non hanno di certo favorito un cambio di prospettiva quelle iniziative che, in occasione del bicentenario, si sono proposte di far conoscere questi due autori al pubblico più vasto sfruttando e alimentando un pretestuoso conflitto personale e ideologico tra di essi. A questo proposito non possiamo fare a meno di notare l’analogia di trattamento con altri «casi», non meno famosi, entrati nel medesimo modo a far parte dei dibattiti massmediologici di attualità, e quindi sofferenti degli stessi luoghi comuni alimentati da quelli. Si potrebbe infatti parlare del «caso» Ugo Foscolo / Vincenzo Monti allo stesso modo del «caso» Verdi / Wagner, e di come anche i primi siano stati giudicati dalla critica, dalla scuola e dal pubblico per il loro maggiore o minore «impegno civile», essendo facilmente «interpretabili», in questo senso, l’uno come «grande rivoluzionario» l’altro come «pericoloso conservatore».
Di questi tempi, in cui la produzione «contemporanea» per uscire dal ghetto dell’autocelebrazione, della trasgressione fine a se stessa e della sperimentazione di nuovi incomprensibili e tautologici linguaggi, usa la categoria dell’«impegno civile» per giustificare operazioni altrimenti ingiustificabili; una situazine in cui lo sperpero del denaro pubblico in iniziative che non asciano alcuna traccia nei luoghi dove si celebrano, maschera bene l’assistenzialismo a una casta di pseudo intellettuali e pseudo artisti che si convince di aiutare e assistere i più deboli nascondendo di essere loro i deboli inetti assistiti e aiutati dalla politica che li protegge, è chiaro che l’unica chiave in cui potevano venir considerati, o peggio «riletti» anche questi due grandi autori è stata il loro presunto maggiore o minore «impegno civile».
La scuola per prima, proprio come i mass media, insegna a considerare gli autori più per ragioni ideologiche che per ragioni artistiche, in opposizione tra loro anziché in reciproca correlazione. Sicuramente ciò è dovuto alla semplice ragione che è molto più conveniente invocare facili opposizioni ideologiche che cimentarsi nello studio dei testi per ricercare affinità non immediatamente identificabili. Estendendo anche al teatro musicale quello che sottolineò il critico Asor Rosa in occasione della presentazione del suo studio enciclopedico della letteratura italiana, a suo avviso troppo condizionata dal «modello desanctisiano», si potrebbe dire che molti autori sono troppo spesso sottovalutati o sopravvalutati perché opposti «ideologicamente» anziché accostati «metodologicamente»:
“… mi sembra che il modello desanctisiano comporti la presenza di un certo tipo di ideologia. La letteratura è per lui una delle tante manifestazioni della vita morale che a sua volta è il riflesso della vita civile di un popolo. Ebbene questo modo di guardare ai testi non ne mette in evidenza tutta la potenziale ricchezza; i testi sono qualcosa di più complesso, di più contraddittorio. […] bisognerebbe occuparsi meno di ciò che questi autori hanno detto e più di come, con quali innovazioni di linguaggio hanno scritto. […] se si dedica maggiore attenzione al linguaggio ma soprattutto alla comparazione tra i linguaggi nelle diverse arti, per esempio quelle figurative quelle musicali, se insomma lasciamo perdere il falso principio della sostanziale autonomia del linguaggio letterario, scopriamo innovazioni geniali, di enorme portata. Un metodo che privilegia nel testo la presenza o la capacità di evocare una tensione civile lascia di fatto in ombra altre a mio avviso ben più importanti qualità degli autori. […] Nell’ottocento, il secolo in cui si è fatta l’Italia, abbiamo due poeti di grande levatura, Foscolo e Leopardi, non capiti e sacrificati sempre nel senso di cui abbiamo appena parlato, ovviamente. Anche Foscolo è infatti valorizzato come poeta civile. Ma proviamo invece a leggere I sepolcri dal punto di vista della modernità del linguaggio e della costruzione poetica. Ci accorgeremo di quanto Foscolo abbia contato nel fenomeno neoclassico non solo a livello italiano ma europeo. Per non parlare di Leopardi, che è un altro grandissimo poeta dell’ottocento per intuizione moderna dei caratteri della poesia, ed è invece stato trattato quasi esclusivamente per il contenuto dei suoi versi, il “pessimismo leopardiano” utile, secondo De Santis, a suscitare nel lettore e nel critico sentimenti etici in contrasto con quelli dell’autore, o da classificare addirittura, secondo Croce, come un caso patologico. Come ormai evidente, questo metodo di classificazione e di giudizio, oltre a risentire più di altri del tempo dei cambiamenti di prospettiva storico politica (oggi appare ridicolo vedere sette secoli di letteratura tutti tesi a costruire l’Italia) non prende in considerazione poeti e letterati per ciò che essi sono prima di ogni altra cosa: degli scrittori. Penso che persino Manzoni, se si riuscisse nell’impresa ciclopica di scollarlo dall’immagine di padre della patria e delle lettere nazionali moderne, potrebbe essere ristudiato e riservarci delle sorprese. Certo i desanctisiani e la scuola hanno fatto di tutto per rendere Manzoni quasi insopportabile. Hanno dato rilievo al fatto che avesse messo le sue capacità al servizio dell’ideologia, e nel suo nome hanno enfatizzato tutti gli autori che si sono impegnati a dare una coscienza unitaria all’Italia. E marginalizzato gli altri, quelli che come Leopardi non alzavano il tricolore. Ed ecco così pagine e pagine di storia della letteratura piene di omaggi agli spiriti civili che si sono caratterizzati per la loro italianità (Manzoni, Parini, Alfieri e lo stesso Foscolo letto è usato per il verso sbagliato) e la quasi esplicita condanna degli altri. Bisogna dire con franchezza che se il metro di giudizio fosse un altro, a Manzoni toccherebbe un drastico ridimensionamento. […] Il metodo desanctisiano era appunto un modo di guardare alla storia della nostra letteratura storicista e contenutista, ed è sopravvissuto alla morte di De Sanctis.”
Si potrebbe parlare a lungo della rilettura dei «classici» che è stata fatta – senza attendere centenari – dallo stesso Asor Rosa o da altri studiosi non condizionati ideologicamente – come ad esempio Italo Calvino, nel ruolo di saggista – che, proprio in un’epoca disattenta al proprio patrimonio umanistico, considerato superato dalla «contemporaneità» – hanno contribuito a rivalutare tanti grandi autori per le loro «qualità artistiche» piuttosto che per il loro reale o presunto «impegno civile».
Per il «caso Verdi/Wagner» vale quello che si può dire per tutti gli artisti per i quali si è tentata una strumentalizzazione o una riduzione del loro talento da parte di interpreti mediocri, sociologi, storici, politici spregiudicati disposti a «usarli» per i loro fini. Facendo leva sulla personalità, il nome, la vita leggendaria degli autori, essi sono riusciti spesso ad offuscare, agli occhi del pubblico, le qualità artistiche dei testi, e ad esaltare invece quegli aspetti della vita degli autori interpretabili politicamente, suscettibili cioè di diverse possibili strumentalizzazioni in tal senso, positive o negative.
E’ esattamente quello che si è cercato di fare per tanti altri autori, più di recente ad esempio per Roberto Rossellini, un autore considerato quasi come un partigiano piuttosto che come un grande narratore e soprattutto un grande umanista, motivo per cui si ricordano di quest’autore solo i film che possano essere utilizzati come rappresentativi di un atteggiamento politico nei confronti della liberazione del nostro paese dall’oppressione nazista, o, al contrario, quei film che possano gettare una luce ambigua, persino negativa, su di lui perché strumentalizzabili da opposte fazioni.
Allo stesso modo si potrebbe parlare del grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwangler, di come è stato trattato e giudicato alla fine dell’ultimo conflitto mondiale per essere rimasto in Germania e per aver diretto davanti al Reich.
Si potrebbe anche ricordare che persino il genio di Walt Disney è stato oscurato dai giudizi intorno alla sua personalità, considerata ambigua e pericolosa per le sue presunte posizioni politiche; proprio come Richard Wagner o il grande illustratore della sua opera, Franz Stassen, caduto in disgrazia per essere stato apprezzato dal regime nazista.
Anche il «caso Verdi/Wagner» va dunque considerato come tutti quei casi in cui autori molto noti sono stati giudicati per le loro idee politiche più che per le loro opere, per la loro vita più che per la loro ricerca artistica; autori vittime di pregiudizi ideologici che hanno pesato sulla valutazione delle qualità straordinarie dei loro capolavori. Questi «casi», che si riaprono in occasione di ricorrenze storiche, potrebbero costituire persino una buona occasione per ridiscutere, viceversa, proprio in ambito didattico, una concezione ideologica come quella desanctisiana, su cui Asor Rosa invitava a riflettere, che ha condizionato per tanto tempo lo studio della letteratura italiana. Si potrebbe, in questa prospettiva metodologica, ridiscutere i giudizi sul talento artistico di molti autori senza farsi condizionare dalle strumentalizzazioni ideologiche che ne sono state fatte sia in senso positivo che negativo, sia pure avvalorate, a volte, dalle posizioni politiche personali prese dagli stessi autori nella loro vita.
In questo caso specifico, anziché puntare il dito sulle scelte di vita di questi due autori, varrebbe la pena esplorare i testi per capire se e in quale misura essi siano condizionati dalle loro simpatie ideologiche; e anziché ricercare significati dietrologici, sarebbe più utile domandarsi per quali ragioni la complessità delle loro opere venga ridotta ai luoghi comuni proiettati su di esse tanto dal lettore ingenuo, quanto dall’insegnante impreparato quanto ancora dal critico militante.
Insomma, di fronte ad autori che pure, per la loro biografia, si prestano ad essere considerati esempi di impegno civile in senso positivo o negativo, sarebbe meglio chiedersi, a nostro avviso, se il criterio di «impegno civile» usato dai critici, dagli insegnanti o dai seplici lettori, sia adeguato per lo studio di testi artistici, le cui qualità non possono certo consistere nella loro maggiore o minore adattabilità a rappresentare le idee politiche degli autori o a sostenere quelle del critico/insegnante/fruitore che intenda piegarle ai propri scopi. in altre parole, mentre ci si interroga sulle idee politiche di Verdi o di Wagner, perché non ci si interroga sulla pertinenza di tali interrogativi per spiegare la complessità e universalità dei loro capolavori? Perché non ci si chiede, invece, se una critica, una didattica e una lettura ideologica basate sul concetto di autore/critico/lettore impegnato a fare propaganda politica sia o no adeguata a penetrare la profondità di un testo classico costruito per superare il proprio tempo e le barriere ideologiche entro cui il critico/insegnante/fruitore è invece imprigionato? Non è certo a Wagner o a Verdi che va imputata la lettura ideologica, in chiave risorgimentale o nazista, della loro opera, ma a quei critici/insegnanti/fruitori incompetenti che ricorrono all’ideologia – in mancanza di altri strumenti – per valutare i testi artistici.
I testi, per fortuna, sopravvivono alle ideologie e ai tentativi di storicizzarli, di considerarli cioè rappresentativi dei costumi e delle idee standardizzate del proprio tempo, al pari dei testi giornalistici o di qualunque altro documento possa essere conservato in quanto reperto rappresentativo di un fenomeno di pertinenza storica o antropologica.
Non è forse proprio nel nostro paese che si utilizza tanto spesso il termine “autore” per denotare non le qualità di un artista ma quelle di chi si impegna a fare propaganda politica, di chi si dimostra apparentemente disinteressato a «vili successi commerciali», forse perché le sue imprese sono finanziate a priori, indipendentemente dai risultati? Il luogo comune costituito dall’opposizione tra «commerciale» e «impegnato», che ancora si adotta implicitamente nei discorsi sul cinema, sulla letteratura e sul teatro, costituisce un presupposto implicito che rivela indirettamente quanto la critica, come la didattica, siano ancora impregnate di ideologia, e quanto gli studi umanistici abbiano perso di scientificità a favore di una opportunistica strumentalizzazione socio-politica.
Sono infatti i concetti (non i nomi) di «arte» e di «scienza» ad essere usciti di scena per dar spazio a quelli di economia e di politica; si parla infatti ormai abitualmente di “economia della cultura” e di “politiche culturali” così come si creano cattedre di “scienze di ogni cosa”; e l’appellativo di “artista” viene ormai attribuito a chiunque pratichi una qualche forma di espressione o, come si dice oggi, di “arte”. In base a tali criteri economici e politici il successo di un testo e l’autorevolezza di un autore vengono giudicati da un lato secondo il numero di copie vendute e da un altro secondo le simpatie politiche suscitate o invocate magari attraverso l’accorta scelta di un tema di attualità a cui riferirsi simbolicamente.
Nella scuola che ancora adotta la concezione desanctisiana e che insegna che «quello che viene dopo è meglio», mentre «quello che viene prima è superato» (tanto varrebbe studiare solo libri sulla contemporaneità), si finisce per far odiare i classici, come lo stesso Asor Rosa o Italo Calvino ci ricordano (ma basterebbe chiedere ai nostri figli o ricercare tra i nostri ricordi); a questo punto ci si potrebbe augurare che certi classici escano dai programmi scolastici piuttosto che risiedervi per essere trasformati in incubi, come oggetti da studiare «per dovere», destinati a innescare quella terribile opposizione di cui sopra: infatti i testi «impegnati» si fruiscono e si studiano per «dovere» – come una dottrina o una purga – mentre quelli «commerciali» per piacere, o meglio per «intrattenimento».
Adottando queste categorie è difficile immaginare che le opere di Verdi e di Wagner possano essere oggetto di uno studio serio e al contempo piacevoleUno studio che faccia scoprire ai giovani lettori quanto i testi di questi due autori siano più complessi e affascinanti di qualunque succedaneo che ne imiti oggi inconsapevolmente le straordinarie soluzioni. D’altro canto, se i ragazzi amano Il Signore degli anelli perché non dovrebbero amare L’anello del Nibelungo, di fronte al quale il primo altro non è che la versione banale di una grande saga? Perché un giovane che piange davanti a un’ingenua commedia romantica contemporanea «di culto» non dovrebbe commuoversi con un melo ben più complesso e appassionante come Traviata? Il problema sta a nostro avviso nel «come» ci si avvicina a questi capolavori; e non è da sottovalutare il «come» li si mette in scena, spesso sottraendo, già nell’interpretazione registica, molto della loro complessità a favore di riduttive «attualizzazioni» in chiave ideologica.
I testi di Wagner e di Verdi postulano un destinatario in grado di destreggiarsi tra più piani espressivi per poter cogliere il diverso apporto di essi alla complessità narrativa; un destinatario che non c’è più ma che si può ancora formare; un destinatario che trarrà da questa formazione la capacità non solo di comprendere e apprezzare l’opera di questi e di altri grandi autori, ma anche di poter lui stesso sperimentare in prima persona una forma di narrazione propriamente «poli-espressiva».
Ma per far questo non basta consultare diversi studi letterari, musicali, e teatrali in rapporto a un medesimo capolavoro di uno di questi due autori. I tanti saggi che vengono scritti ad esempio per i programmi di sala delle messe in scena non sono in genere articolati «scena per scena», non ricercano nella totalità del testo «gli elementi e le regole» ricorrenti che ne governano il funzionamento, ma sono condotti su un solo piano espressivo e con competenze settoriali; di conseguenza possono cogliere un solo livello del racconto, e tuttavia spesso finiscono per usarlo «riduzionisticamente» per interpretare l’intera costruzione narrativa, trascurando il valore degli altri piani espressivi in un’opera che viceversa funziona solo grazie all’interazione «complementare» di essi.
Per studiare queste opere occorre da un lato una competenza propriamente narrativa – per riordinare sul piano narrativo tutte le informazioni veicolate dai diversi piani espressivi – e da un altro una competenza poli-espressiva – per identificare in ogni piano espressivo i tratti pertinenti per ricavare le informazioni che l’autore ha affidato ad essi in rapporto al piano narrativo comune.
D’altro canto anche la scuola – come la televisione o l’Internet di Wikipedia – propone all’utente sprovveduto paginette divulgative, schede riassuntive sugli autori che contribuiscono a creare e a diffondere stereotipi su di essi. La divulgazione pedagogica – al di là delle intenzioni, a volte sincere – anziché stimolare interrogativi crea false sicurezze e smercia facili e false conoscenze a buon mercato, luoghi comuni di cui gli stessi lettori diventano portatori impliciti e inconsapevoli. La divulgazione non aiuta la comprensione dell’opera di questi autori ma anzi la allontana, perché con l’illusione della conoscenza spegne la curiosità e il dubbio. Meglio la sana consapevolezza della propria ignoranza, che spinge almeno ad avvicinarsi ai testi artistici con la necessaria umiltà per poter capire cosa occorre imparare, di quali strumenti occorre dotarsi per poter arrivare a comprenderli e ad apprezzarli a pieno.
Premesso tutto questo, il bicentenario Verdi-Wagner avrebbe potuto essere una grande occasione per studiare quali aspetti metodologici abbiano in comune le ricerche ei progetti di questi due autori, quale cammino parallelo abbiano percorso nella stessa direzione, quali medesime questioni hanno dovuto affrontare e quali soluzioni originali abbiano elaborato intorno ad esse.
Il bicentenario poteva essere l’occasione giusta per indagare e far conoscere le affinità di pensiero tra due grandi artisti che, come tutti i grandi autori eredi di una tradizione umanistica importante, hanno raccolto quegli interrogativi che prima di loro già altri grandi umanisti si erano posti, e li hanno rilanciati alle generazioni successive caricandoli di tutte le loro personali riflessioni; i loro capolavori, confrontati a distanza di tempo e con un metro di paragone non ideologico ma metodologico, ci permettono di vedere quanto questi due autori abbiano in comune piuttosto che in opposizione tra loro. In questa prospettiva il bicentenario poteva essere un’occasione per riconsiderare gli apporti reali di questi due autori all’evoluzione del teatro musicale; un’occasione per valutare le loro idee «rivoluzionarie» riguardo al modo di raccontare e non alle loro scelte di vita. Ma anche un’occasione per aiutare i giovani che si accostano ora ai lavori questi due grandi maestri, affinché non commettano l’errore di giudicarli superficialmente, sbrigativamente e sommariamente, per meriti o demeriti che non dipendono dalla qualità delle loro opere.
Su questo piano squisitamente metodologico si possono scoprire molte delle qualità che accomunano questi due grandi autori. Due autori che hanno condiviso un cammino parallelo verso una concezione propriamente «multimediale» del progetto narrativo e della sua messa in scena. Un cammino che vorremmo far divenire oggetto di una proposta metodologica per la scuola e per la formazione a tutti i livelli.
Oggetto di interesse dell’Istituto è una particolare metodologia di approccio ai problemi comunicativi, progettuali e cognitivi connessi alla composizione, allo studio e alla didattica dei testi artistici.
Tale impostazione e metodologia tende a far individuare e utilizzare progettualmente:
– distinzioni tra ambiti che in genere vengono associati impropriamente,
– o, all’opposto, relazioni e interazioni tra ambiti che in genere vengono considerati distanti o addirittura irrelati.
Particolare attenzione è rivolta ai rapporti tra: la ricerca scientifica e la ricerca artistica, l’indagine e la progettazione, l’universo comunicativo e l’universo non comunicativo, le forme espressive e le forme narrative nella comunicazione artistica.
Le attività di ricerca, di formazione e di progettazione che l’Istituto svolge, hanno come riferimento i meccanismi – sovente impliciti e fin troppo spesso inconsapevoli – di costruzione, funzionamento e classificazione dei prodotti culturali e artistici. Questa impostazione porta infatti a riconoscere le costanti e le variabili dell’attività ideativa e dell’attività analitica; costanti e variabili che attraversano e in qualche modo prescindono da: i differenti contesti in cui i prodotti sono fruiti, i differenti usi/significati che storicamente e culturalmente sono loro assegnati, i materiali di cui sono fatti, gli strumenti tecnici con cui sono realizzati e, nel caso dei prodotti comunicativi, i valori ideologici che possono essere loro attribuiti.
Tutte le attività dell’Istituto Metacultura, sia che riguardino lo studio, la progettazione o la didattica, si svolgono su due livelli operativi, distinti fra loro eppure strettamente connessi e interagenti.
Il piano analitico e il piano progettuale.
Il primo consiste nell’esaminare e rappresentare il sistema di funzionamento di prodotti presi in considerazione, siano essi adibiti a funzioni comunicative o, invece, a funzioni non comunicative.
A questo livello si mette in atto un procedimento di «scomposizione» che, muovendo dal complesso al semplice tende a ricavare elementi e regole (criteri di indagine, meccanismi di funzionamento, parametri strutturali e funzionali) e modelli risultanti dalla loro correlazione.
Tale procedimento permette di rendere esplicite le soluzioni compositive inerenti ai prodotti, le quali consentono ai prodotti stessi di assolvere le funzioni per cui sono usati («per servire a»: funzioni extracomunicative; «per significare»: funzioni comunicative).
In questa prospettiva gli oggetti vengono considerati come combinazioni di elementi e come attualizzazioni di possibilità offerte dal controllo e dall’applicazione dei principi compositivi che via via si individuano nell’analisi degli oggetti stessi.
Ciò rende anche possibile confrontare e valutare, in base a criteri espliciti oggettivati e definiti, le scelte compiute e le alternative scartate (consapevolmente o meno) dagli autori, nonché le potenzialità (di lettura o di uso) lasciate aperte e pertinentizzate dai fruitori; possono così essere compresi i diversi criteri che governano tanto l’attività di progettazione quanto quella di interpretazione, di classificazione e uso degli stessi oggetti.
In questo modo non si indaga solo sui prodotti, ma, attraverso di essi, si indaga anche sui modi di indagare, classificare, confrontare, comporre, comunicare.
Questa impostazione potrebbe venire pertanto definita anche «strumentale», in un duplice senso:
– sia perché si interessa agli strumenti metodologici della conoscenza, della progettazione e della composizione,
– sia perché, in una prima fase, considera «strumentalmente» gli oggetti indagati, per ricavare principi e procedimenti la cui validità va ben al di là del singolo oggetto preso in esame. E’ in questo senso che gli oggetti vengono considerati come attualizzazioni di un sistema di regole soggiacente.
Va però anche detto, complementarmente, che il considerare oggetti particolari e concreti consente non soltanto di affinare strumenti analitici e progettuali; consente anche di cogliere e apprezzare le qualità dei singoli progetti, proprio in quanto si acquisiscono via via strumenti adeguati per distinguere e valutare la loro complessità e raffinatezza (altrimenti neppure rilevabile in un contesto culturale ormai così condizionato dai problemi della quantità e della novità, al punto da sollecitare troppo spesso letture superficiali e omologazioni grossolane dei prodotti).
In questo modo, inoltre, è possibile far emergere le relazioni strutturali tra i prodotti, nonché le eredità di soluzioni e funzioni che essi possono sviluppare oppure semplicemente adottare.
L’individuazione dei meccanismi di funzionamento di un prodotto consente infatti di scoprire le relazioni di affinità che lo legano ad altri in base alla logica compositiva, ai principi di composizione degli elementi e alle funzioni assegnabili. Legami che possono essere individuati sia lungo l’asse diacronico della storia di tradizioni ed eredità culturali, sia lungo l’asse sincronico e pancronico della
forma compositiva dei prodotti stessi tra loro contemporanei o distanti nel tempo ma correlati logicamente attraverso di essa.
Va sottolineato che l’Istituto non coltiva un approccio storico-filologico nell’analisi dei prodotti (per esempio interessandosi ai dati biografici degli autori, alle loro «intenzioni» e ai contesti filosofico-ideologici) e neppure un approccio «settoriale» (per esempio assumendo distinzioni di «generi», contenuti, usi). L’attenzione prevalente va al «come è fatto» e al «come funziona» il prodotto, all’adeguatezza delle soluzioni rispetto alle funzioni che deve svolgere.
Il piano progettuale
Il secondo livello è quello più propriamente «progettuale e produttivo». Va anzitutto precisato che le cose dette per il livello analitico valgono anche per questo secondo livello, in quanto l’attività progettuale (anche e a maggiore ragione quella artistica) si fonda su un processo di indagine e di ricerca, pena la confusione, lo spontaneismo, la riproposizione meccanica e stereotipata di soluzioni già esistenti. Inoltre l’attività progettuale non può procedere in assenza di riferimenti: essi però possono essere adottati inconsapevolmente o sviluppati consapevolmente e persino esplicitamente
(in tal caso aggiungendo un livello metadiscorsivo sui rapporti tra il testo e i testi correlati ad esso). L’analisi e l’individuazione dei meccanismi di funzionamento di prodotti preesistenti è, in questa prospettiva, il fondamento per studiare meccanismi e soluzioni nuove.
Attraverso l’analisi di prodotti esistenti si possono individuare, confrontare e classificare elementi e regole di composizione.
Tali elementi e regole permettono a loro volta di elaborare modelli compositivi, che contengono, senza
esaurirsi in esse, le possibilità compositive osservate. Questi modelli, oltre a costituire strumenti per l’attività di analisi e di comparazione, svolgono un ruolo importante anche nell’attività progettuale. Essi infatti consentono:
1) di riconoscere e confrontare le affinità e le diversità non superficialmente rilevabili nei prodotti considerati,
2) di operare trasformazioni sui prodotti agendo in modo sistematico sulla variazione di alcuni elementi, fino a realizzare prodotti diversi da quelli d’origine,
3) di ipotizzare nuove combinazioni degli stessi elementi, che possano configurare progetti di nuovi prodotti.
L’attività progettuale può procedere prendendo in considerazione sia il livello delle «soluzioni» («come è fatto» il prodotto), sia quello delle «funzioni» («a cosa serve / che significa» il prodotto). Se gli elementi considerati sono delle «soluzioni», fissandone alcune come costanti e variandone altre si possono ricercare e scoprire nuove possibilità funzionali, nuove possibilità d’uso. Se sono invece delle «funzioni», sempre fissandone alcune come costanti e variandone altre, si possono ricercare e scoprire nuove soluzioni adeguate a svolgerle.